Mosche
Enrico Padovan
Non provo alcun rimorso nell’osservare distrattamente le mie mani lorde di sangue fresco e scintillante alla luce della torcia. Non provo alcun rimorso nell’udire i rantoli soffocati di una giovane giacente supina ai miei piedi, implorante.
Non provo alcun rimorso quando il mio sguardo cade indifferente su un coltello lungo e meticolosamente affilato, strumento fine e ben costruito, il manico in corno di cervo, anch’esso splendente di sangue.
Non provo alcun rimorso, anzi: sorrido.
Sento questo sciocco, inutile, inaspettato sorriso allargarsi sulle mie labbra, stirandole in una smorfia non voluta. Ma se anche sul mio volto traspare un’esultante emozione, il successo, il mio cuore è gelido e distaccato, si rifiuta di rivolgere le proprie attenzioni al gesto appena compiuto.
All’improvviso, il silenzio si fa totale. Abbasso rapidamente gli occhi sulla donna, i capelli biondi stesi intorno al suo volto come una corona dorata, gli occhi spalancati che fissano imploranti, la bocca aperta in un urlo silenzioso. Ed un fiore scarlatto sul petto.
Non più un rantolo, né una parola dolce come una carezza, uscirà da quelle labbra carnose. Solo silenzio.
Un ronzio comincia a farsi strada nella mia mente.
Dapprima basso, quasi impercettibile, ma poi sempre più forte, riecheggiante, prepotente, violento. Sbatte e rimbomba contro le pareti del mio cervello, le graffia, le morde, le raschia, le pizzica. Mi porto istintivamente gli indici alle tempie, come per tentare di toccare il rumore, ma esso non fa che intensificarsi, fiutando l’odore del sangue. Mi prendo il capo tra le mani, lo stango, lo torco, lo agito selvaggiamente, ma il ronzio non vuole saperne di lasciarmi.
E lo vedo.
Un moscone nero come la pece, talmente scuro da assorbire la luce, orrendamente grosso e nefandamente sporco; un orrore dalle sei zampe in movimento frenetico che lasciano dietro di sé una traccia scura; un abominio ronzante che sbatte le ali diafane implacabile e crudele, svolazzando nella mia testa. E con l’aumentare del ronzio, aumentano i mosconi, vomitati dal primo; si riproducono rapidi, non appena nati sono già in grado di espellere dai propri corpi grottesche bolle di liquido simile a petrolio, che esplodono dando luce a miriadi di larve bianche. Posso osservare il ciclo vitale dei demoni svolgersi sotto ai miei occhi, rapidissimo, ed in meno di un secondo essi hanno già raggiunto l’adulto stadio nero, e s’alzano in volo dalla pozza di pensieri.
Il dolore si fa strada in me.
è un dolore fisico e crescente, che dalla testa divampa in tutto il corpo, avvolgendo il cuore con lingue di buio e arpionando gli occhi con artigli di dubbio.
Mi accascio al suolo, non riesco a reggermi nemmeno sulle ginocchia: cado bocconi, a pancia in giù, gli occhi a pochi millimetri dal volto della mia vittima innocente, resi ciechi dallo zampettare dei mosconi. Lentamente, la mia mano si fa strada attraverso l’aria così densa di orrore da sembrare acqua, e finalmente si appoggia delicata sulla guancia morbida della ragazza. In un movimento penoso, su e giù, comincia ad accarezzarla triste.
E mentre io mi contorco come un verme decapitato, scosso da tremiti incontrollabili, la mia mano si scusa, implora, cerca una via di scampo.
Passano i secondi, i minuti, le ore. I giorni, forse. Non me ne rendo conto: chiuso in un regno di atrocità e dolore, non vedo neppure uno spiraglio di libertà.
Ad un tratto, però, la mia mano si fa più forte, rinvigorita dalle carezze che ha donato, e si avvicina al mio volto, decisa. Scaccia con gesti meccanici gli insetti dai miei occhi, che volano via per posarsi di nuovo sulle pareti del mio cervello. Posso di nuovo vedere. C’è uno specchio davanti a me, o per Io meno un frammento di quello che doveva essere stato uno specchio.
Il mio cervello, in uno sforzo disumano di recuperare l’intelletto, mi dice che devo averlo distrutto mentre risi agitavo selvaggiamente, preso dal dolore. E così vi guardo dentro, senza una ragione che quella di concentrarmi su un qualcosa di terreno per rimanere appigliato alla vita.
Il colletto della camicia è sporco di sangue, ma non so se è il mio o quello della giovane. E sopra al colletto, oltre la stoffa imbevuta, dove dovrebbe avere sede il mio capo, non c’è nulla.
Non esisto più.