RACCONTO SEGNALATO
Lucia Palma
Liceo “D. Alighieri” Trieste
Il suo nome
Si buttò sul letto, le spalle dolenti per il peso dei libri di scuola, e si mise a fissare le stelline e i pianeti fluorescenti attaccati al soffitto, che nella semioscurità della stanza risplendevano pallidi. Lasciò che la sua mente vagasse, preparandosi ad affrontare quei pensieri che aveva cercato di scacciare per tutta la mattina. Aveva deciso, non poteva tenersi tutto dentro ancora a lungo, non senza esplodere o diventare pazzo. Ormai aveva capito che non poteva semplicemente ignorare il fatto e continuare a vivere di compromessi. Tremò al pensiero di quello che stava per fare. Il cuore gli iniziò a battere forte in petto. Non ne sarebbe stato capace. Non l’aveva mai neppure detto ad alta voce.
Si alzò di scatto e si avvicinò allo specchio di camera sua. Esitò prima di sollevare lo sguardo. Cercava di evitare gli specchi se poteva, erano come insegne al neon che gli urlavano “SEI DIVERSO’. Alzò gli occhi, trovandosi davanti una ragazza. Capelli lunghi fino alle spalle, castano chiaro, vestiti troppo grandi che comunque non riuscivano a nascondere completamente le curve della sua figura, due occhi verdi, l’unica parte del suo corpo che riuscisse a farsi piacere. Si concentrò su quegli occhi, ignorando la ragazza vestita da ragazzo. “Sono transessuale”, la voce gli uscì soffocata, “Sono un ragazzo”, questa volta riuscì a infonderci un po’ di sicurezza. Si ributtò sul letto, sussurrando di nuovo “Sono transessuale”.
L’aveva detto. Bene. Ma non sarebbe stato così facile dirlo a qualcuno che non fosse il suo riflesso. Da quanto tempo ormai si riferiva a se stesso usando il maschile? Da quanto tempo sentiva il suo corpo come fosse sbagliato? E da quanto tempo aveva cercato di negarlo? Era sempre stata l’unica bambina a vestirsi da cavaliere e non da principessa a Carnevale, l’unica a giocare ai Gormiti invece che alle Winx, l’unica a rifiutare vestiti e colla nine. Per molto tempo si era detto che era semplicemente un maschiaccio, una ragazza poco femminile, che non c’era nulla di male a preferire certe cose ad altre. Si era ripetuto che da piccolo aveva giocato anche con le bambole, piangeva ancora se guardava un film triste e gli piacevano i colori pastello. In fondo, come si distingue un’attività maschile da una femminile? Perché il calcio era per i maschi, la danza per le femmine? Aveva sempre pensato che non avesse senso definire qualcosa da maschio o da femmina, il genere non è determinato dai comportamenti di una persona. Ma ormai sapeva di non essere una ragazza. Nessuna ragazza si sarebbe sentita a disagio nel vedersi crescere un seno che non desiderava, o nel sentirsi chiamare con il proprio nome, o nel realizzare che In mezzo alle gambe mancava qualcosa che avrebbe dovuto esserci. Si era informato. Aveva cercato risposte su internet e ormai non poteva continuare a negare la propria identità. Non che non ci avesse provato. Aveva indossato le gonne, si era truccato, aveva mimato i comportamenti delle sue amiche, Ora era stanco. Stanco di fingere e sentirsi sbagliato. Aveva paura, ma sapeva che era la cosa giusta da fare.
“È pronto! Per l’amor del cielo, Giulia, apri un po’ quelle tende!”
Sospirò andando verso la finestra per permettere alla luce del sole di entrare in camera. li suo cuore ricominciò a battere, neanche stesse correndo una maratona, ma fece due respiri profondi e usci. Sua madre, suo padre e suo fratello erano già a tavola. Si sedette, aspettando l’occasione. Iniziarono a parlare, a raccontarsi la giornata, e lui mangiava in silenzio, senza sentire davvero il sapore del cibo, le mani fredde e sudate. Quando credeva di poter intervenire, il cuore sembrava volergli uscire dalla gola, costringendolo a fermarsi e così perdeva il momento giusto. È una tortura_ basta, Io devo fare e basta. “Devo dirvi una cosa”, interruppe suo padre che si bloccò un po’ irritato: “Dicci allora”. Si sentiva tre paia di occhi addosso, gli mancò l’aria. Gettò fuori tutto d’un fiato: “Ho preso quattro in matematica’. Con gli occhi lucidi, sentendo giungere le lacrime, si alzò strisciando la sedia a terra rumorosamente, corse in bagno. Non lo posso fare, non lo posso fare.
Dopo diversi interminabili minuti, sentì fuori dalla porta i suoi genitori sussurrare preoccupati. Avevano provato a farlo uscire e a parlarne, ma non aveva risposto. Non era da lui fare una tale scenata per un votaccio e a loro non importava davvero se a volte non riusciva a prendere la sufficienza, bastava recuperasse, Il suo comportamento appariva inspiegabile. Si rannicchiò ancora di più sul pavimento, pensando alle domande che avrebbe dovuto affrontare. Si asciugò gli occhi e si lavò il viso, sentendo finalmente i suoi genitori tornare in cucina a sparecchiare. Lo sguardo scivolò sul suo riflesso nello specchio: rimaneva quella ragazza sconosciuta dai capelli lunghi. Sua madre insisteva a dire che i suoi capelli erano troppo belli per essere tenuti corti e l’aveva sempre incoraggiato a tenerli lunghi almeno fino alle spalle. Non aveva mai trovato la forza di dirle che li voleva corti. Ecco cosa mi manca, il coraggio.
Poi vide le forbici abbandonate sulla mensola. Si fermò, un’idea iniziava a prendere forma nella sua testa. No. Sì. Sua madre sarebbe stata furiosa, Coraggio. Afferrò le forbici, lei ne aveva tante, essendo parrucchiera, e di molti tipi diversi, ma lui non aveva idea di quali fossero le differenze. Le prese, queste sembravano piuttosto normali, semplici. Le fissò per un secondo, il metallo freddo nella sua mano. Con un certo distacco pensò che questo sarebbe stato il suo primo gesto consapevole per far diventare l’immagine che vedevano gli altri più simile a ciò che sentiva lui. Afferrò la prima ciocca e la recise con decisione. Solo quando era ormai troppo tardi, sua madre si accorse dei rumori che giungevano dal bagno. Minacciava di buttare giù la porta e Giulio finalmente aprì. Se la trovò davanti preoccupatissima, i lunghi capelli di sua figlia erano ora una zazzera informe, cortissima. Il viso della madre sembrò crollare, pensava l’avesse fatto per dispiacere a lei. “Giulia … cosa sta succedendo, perché…”
“Sono transessuale.” Questa volta non c’era stata nessuna corsa pazza nel suo petto, nessuna esitazione. Sentì che stava per rimettersi a piangere. “Mamma, sono un ragazzo,” Confusione. Sorpresa. Di nuovo confusione. Giulio si sentì gelare. Fece per scappare in camera sua, ma si sentì afferrare per le spalle, stretto in un abbraccio.
Stettero lì per un po’, stringendosi, poi sua madre lo guardò negli occhi. “Forza, vieni che ti sistemo quel taglio. Li vuoi come quelli di tuo fratello o preferisci qualcosa di diverso?”
Giulio annuì asciugandosi ancora una volta le lacrime. Mentre sforbiciava intorno alla sua testa, la madre ruppe il silenzio.
“Allora, come vuoi essere chiamato?», disse con un po’ di incertezza su quella fantomatica “o”. Ma non era nulla che il tempo non avrebbe potuto cambiare.