RACCONTO SEGNALATO
Clara Besenghi
Isis Nautico Galvani – Trieste
Sul filo del rasoio
Clara guardava la pioggia cadere, le piaceva tanto osservare ogni singola goccia che le passava davanti; era fradicia, bagnata dalla testa ai piedi: niente ombrello.
Sapeva, in cuor suo, che lei era come la pioggia, fredda e forte come il temporale, piaceva a pochi, anzi, in molti la odiavano, ma non le fregava molto perché sapeva di avere un carattere strano e complicato.
Ogni singola goccia che toccava il freddo e bagnato scalino su cui era seduta assumeva una forma diversa ogni volta che si spiaccicava al suolo, e lei adorava osservare quelle strane forme che si confondevano le une con le altre e si facevano un tutt’uno diventando, così, una pozza d’acqua non molto limpida. Anche l’odore dell’asfalto bagnato la conquistava, la prendeva letteralmente.
Quello era il suo piccolo angolo di paradiso; quella scalinata poco trafficata, che si affacciava ad un giardinetto, con di fronte il mare che si confondeva col cielo e più a sinistra le colline. Aveva guardato così tante volte quell’orizzonte sconfinato che i suoi occhi avevano preso lo stesso colore: il verde dal mare e l’azzurro dal cielo. Nessuno le credeva quando raccontava questa storia, la maggior parte delle persone la credevano pazza. Ma lei, lei non aveva bisogno di essere creduta, ascoltata o guardata, da un paio d’anni aveva iniziato a non dare ascolto a nessuno. Aveva sempre dato peso a quello che le persone le dicevano e per molti anni aveva sofferto in silenzio, ma ora tutto era cambiato, ora, con lei, c’era Elsa.
Elsa era una ragazza mistica, andava e veniva quando e come voleva non era Clara a chiederle di uscire, era lei, che se ne aveva voglia, la trovava e insieme passavano uno dei più psichedelici e deliranti pomeriggi.
Elsa adorava i coltelli, ne aveva la casa piena, qualsiasi genere di lama cercavi lei ce l’aveva, ogni sorta di coltello, da cucina, a serramanico, a scatto, era esposto in bella vista. Ogni volta che Clara entrava in casa di Elsa sentiva quei coltelli chiamare il suo nome e le piaceva far scorrere le dita sulla lama sottile e ben affilata e guardare piano piano la pelle aprirsi e il sangue uscire molto lentamente. Pensava di tagliarsi ogni giorno, ma non era coraggiosa quanto lei, che di tagli ne era piena, infatti Elsa aveva braccia, polsi e cosce piene di sottilissimi taglietti, alcuni rossi, ancora freschi, altri bianchi, già cicatrizzati.
Elsa si sedette sullo scalino bagnato dove c’era Clara, non una parola, non uno sguardo, le due si capivano perfettamente solo stando vicine. Elsa le prese la mano, intrecciò le dita con quelle di Clara e insieme si alzarono e, mano nella mano, sotto la pioggia, camminarono verso la fermata dell’autobus più vicina. Non c’era bisogno di chiedere né di domandare: stavano andando a casa di Elsa.
La casa era esattamente come l’avevano lasciata l’ultima volta: il letto era sfatto, le tende, di un color rosso vivo, erano tirate e, nonostante fuori piovesse, la luce che entrava faceva diventare le pareti rosse che, con il mobilio nero rendevano quella casa macabra e tetra. Tutto in quella casa era voluto, niente era lasciato al caso, era tutto in mostra solo per provocare, dai coltelli esposti ai cassetti della biancheria aperti, con gran parte degli indumenti riversi sul bordo del cassetto.
Clara conosceva gran parte di quegli indumenti, aveva dormito in quella casa talmente tante volte che aveva imparato a lasciare là i suoi vestiti e la sua biancheria, sapeva benissimo che tutto ciò che era in quel cassetto ormai non era più suo, ma loro.
Clara ed Elsa condividevano tutto. Erano, di fatto, una coppia, una coppia strana, mai vista prima. Erano come due sorelle con un’intesa unica, due amanti con una sfrenata passione, due ragazze semplici con dei problemi famigliari, bellissime, fragili come fiori, eppure forti come querce. Nessun vento, per quanto forte, le piegava.
Elsa riempì la vasca di acqua calda. Si spogliarono e lasciarono i vestiti inzuppati sul pavimento del bagno. Una di fronte all’altra, in silenzio, immerse nell’acqua calda. Elsa prese una sigaretta dal pacchetto appoggiato sullo sgabello, vicino agli asciugamani, l’accese, e fece un grande tiro, poi passò la sigaretta a Clara che fece lo stesso e subito sputò il fumo verso le piastrelle che ricoprivano il muro vicino alla vasca e ripassò la sigaretta ad Elsa, che, con un sorriso furbetto, la riprese gongolando e, con voce allegra, la ringraziò. Clara tornò a guardare le piastrelle, il viso appoggiato al bordo della vasca e lo sguardo vuoto.
“Ti ha toccata, vero?” Clara non riusciva a parlare, era solo stanca, non aveva voglia di ricordare cosa le era accaduto qualche ora prima, così fece solo un piccolo cenno con la testa. “No? E allora perché sei così?” “Ha solo tentato di trattenermi.” Clara alzò le braccia e subito sui polsi si videro quei lividi inconfondibili. Le mani, le sue mani erano così grandi e forti che avevano lasciato dei lividi profondi, quasi scavati nella chiara e fragile pelle di Clara. Per Elsa non era la prima volta, sapeva, aveva visto, la quantità di lividi sul corpo di Clara, aveva la pelle talmente candida che il viola risaltava come una macchia di vino rosso su una tovaglia bianca. Clara abbassò le braccia e le rimise nell’acqua calda, poi fisso Elsa negli occhi, occhi che la scrutavano, cercavano di captare i suoi sentimenti, ciò che sentiva in quel momento, ma non riuscivano a farlo. Clara era vuota, non provava niente, non aveva sentimenti in quel momento, sembrava che tutta la felicità del mondo fosse stata risucchiata. L’acqua della vasca stava diventando fredda, così entrambe uscirono. Quasi in sincronia misero un piede e poi l’altro sul tappetino. Erano in piedi l’una di fronte all’altra, nude, e nonostante questo, senza vergogna. Ognuna conosceva ogni singolo centimetro di pelle dell’altra. Elsa si girò, prese un asciugamano e se lo legò addosso, poi ne prese un altro e lo porse a Clara. “Grazie”, mormorò Clara.
Una mora, l’altra bionda, entrambe con i capelli legati alla rinfusa e il trucco colato, eppure sempre bellissime. Si diedero una veloce occhiata allo specchio, poi si diressero verso la camera da letto. Si distesero una vicino all’altra, si guardarono nuovamente negli occhi, poi Elsa abbracciò Clara che subito si mise a piangere. Fino a quel momento non aveva provato niente ma ora, ora tutta la tristezza, tutta la rabbia, erano di colpo salite e Clara non riusciva a trattenere le lacrime in quel caldo e confortevole abbraccio. Elsa le baciò la fronte e le accarezzò i capelli, le prese il volto tra le mani e le asciugò le lacrime con i pollici, “Gliela faremo pagare, vedrai. Te lo prometto”. Clara annuì e di nuovo si racchiuse nell’abbraccio di Elsa.
Clara si svegliò di soprassalto, era sola e fuori era buio. Si alzò dal letto e raggiunse Elsa in cucina. Era ancora in accappatoio. “Dovrei andare, non credi?” Elsa si girò, la guardò e con un sorriso le rispose. “Credo di sì, ma se ti va puoi restare.” “No, no. Ho solo voglia di andare a casa”” Sei già a casa, ricordatelo”. Clara sorrise e andò verso Elsa per abbracciarla. Tornò in camera, si cambiò, prese la borsa e se ne tornò in cucina. Diede un veloce bacio ad Elsa, si avvicinò alla porta d’entrata e se ne andò.
Erano circa le 19:45, faceva buio, ma almeno aveva smesso di piovere. Clara camminava da sola, solo i suoi passi risuonavano nella strada deserta.
Non aveva voglia di tornare a casa, ma non aveva neanche voglia di stare con Elsa, voleva stare per conto suo e affogare nella marea di pensieri che aveva per la testa. Tirò fuori le chiavi di casa dalla borsa, le infilò nella toppa, girò la chiave e spinse forte quel portone pesante. Salì lentamente quattro piani di scale, si fermò davanti alla porta di casa, prese un profondo respiro, girò la maniglia ed entrò. Sua madre si affacciò dalla cucina e la salutò con un sorriso spento. Clara andò in camera sua, chiuse la porta dietro di sé, lanciò la borsa a terra e si buttò sul letto. Senza pensarci troppo prese il cuscino, se lo schiaccio sulla faccia e gridò, Gridò più forte che poté, poi si girò sul fianco, sia raggomitolò su se stessa e, in silenzio, si mise a singhiozzare. Qualcuno bussò leggermente, poi la porta si aprì. “La cena è pronta, stai tranquilla, lui non c’è”. Clara si alzò lentamente dal letto e si trascinò stanca in cucina. Si sedette vicino a sua madre e cenarono, in silenzio, come sempre. Sua madre sapeva cosa subiva, c’era passata anche lei e tuttora, quando la difendeva, veniva picchiata. “Non tornerà fino a domani, è via per lavoro”. Clara tirò un sospiro di sollievo, ma rimase comunque tesa e rigida, come se da un momento all’altro qualcuno potesse farle del male.
Elsa girava per casa sua, controllando ogni coltello, come a cercare quello perfetto. Una vocina nella sua testa le parlava, e lei, con attenzione, ascoltava. “Questo no, troppo corto. Quello è troppo fino, anche un taglia burro sarebbe meglio”. Ad Elsa cadde lo sguardo su un coltello posizionato su una mensola in alto. Era il coltello da sushi che piaceva tanto a Clara. Prese giù l’espositore, prese in mano il coltello e lo soppesò. Era incredibilmente perfetto, affilatissimo, con una punta dura e il manico né troppo leggero, né troppo pesante. Era l’arma perfetta.
La sveglia suonò alle 6.45. Clara non aveva voglia di alzarsi, come ogni mattina si alzava stanca, quasi malata, nauseata dall’idea di dover andare a scuola. Non aveva niente contro la scuola, le piaceva imparare, ma odiava i professori, non come persone ma come si ponevano in classe, quasi come se tutto gli fosse dovuto, come se fossero esseri superiori. Clara chiuse la sveglia e si girò dall’altra parte. Verso le 7.15 sentì sbattere la porta d’ingresso, sua madre era appena uscita per andare a lavorare e lei si rimise a dormire. Neanche il tempo di chiudere gli occhi che il campanello trillò. Clara si trascinò alla porta, e prese in mano il citofono: “si?” “Veloce, apri che si gela”. Elsa salì velocemente le scale, Clara lasciò la porta aperta e se ne ritornò a letto. Elsa già dall’uscio iniziò a parlare con voce molto alta: “Non c’è un momento da perdere, non pensare di dormire avanti che ho delle buone notizie da darti” “Che genere di buone notizie?” “Quel genere di notizie che non puoi tenerti dentro, quelle che non riesci a raccontare alla tua amica davanti ad un caffè perché gliele devi raccontare subito.” “okay”. Elsa si sedette energicamente sul letto, ancora con sciarpa, giubbotto e cappellino addosso. Clara si sistemò sotto le coperte, seduta sul letto con la schiena appoggiata al muro. “Ho un piano” “Che genere di piano?” “Uno che ti potrebbe interessare” “Non dirmi che mi aiuti a scappare di nuovo perché ci abbiamo già provato e non mi pare sia finita bene” “No, no, fidati; stavolta la faremo franca. Ho già tutto pronto, ho pensato a tutto anche ai dettagli più piccoli” “E va bene, racconta, ti ascolto” “Lo ammazziamo” “Cosa?!” ” Sì, sì, hai capito bene, se muore non può più farti del male, se lo uccidiamo non potrà mai più farvi questo!” Elsa prese i polsi di Clara e glieli fece guardare, Clara li tirò via subito dalle mani di Elsa e se li portò al petto strofinandoseli, abbassò lo sguardo e si voltò dall’altra parte, poi guardò fuori dalla finestra. L’avvolgibile era chiuso per metà, il vento faceva scuotere i vetri delle finestre, Elsa la chiamò, Clara si voltò verso Elsa, aveva gli occhi lucidi, non aveva voglia di piangere ancora, si tratteneva a stento, ma lei non avrebbe più pianto una lacrima per lui.
Era solo colpa sua, quell’uomo che fin da bambina aveva chiamato papà, quella persona da cui aveva preso esempio perché all’epoca era così gentile e premuroso, non faceva mancar niente, né a lei né a sua madre, d’un tratto cominciò ad essere meschino, a trattarle male, schiaffi, spintoni, sputi, molestie.
“Ti prometto che sta volta non ti toccherà più”. Anche Elsa, ora, aveva gli occhi lucidi. Elsa si avvicinò a Clara e l’abbracciò. “Non mi importa cosa succede, non voglio perderti, per nessuna ragione al mondo, quindi ti prego, fa’ che non ci prendano “disse Clara. “Non ci prenderanno” rispose Elsa “Pensavo, che ne dici di mettere in scena una rapina? Lo colpiamo in testa, lo accoltelliamo e gli rubiamo il portafogli. Siamo in periferia, nessuno sospetterà di noi, per di più come possono vederci le persone? I lampioni qua non funzionano, tutti sono sempre chiusi in casa propria. Useremo passamontagna e guanti in lattice, non lasceremo traccia, nessuna prova. Tua madre ha detto che è via per lavoro, che tornerà domani notte per le tre, penso sia perfetto.” “Non so Elsa, mi sembra affrettato, ho paura. Forse basta un avvertimento, è grande e grosso, noi siamo minute e non abbiamo chissà che forza” si, ma siamo in due! Sappiamo cosa siamo in grado di fare io e te!” “Si, ma… non ne sono così sicura, non me la sento, e poi con cosa credi di accoltellarlo? Io non voglio sporcarmi le mani, è sempre mio padre.” “Non ti preoccupare, potremmo sempre trovare qualcuno che abbia il coraggio di accoltellarlo al posto nostro, E poi, non sarebbe un coltello qualsiasi…” Elsa tirò fuori dalla borsa uno strofinaccio avviluppato su se stesso, lo srotolò, estrasse il coltello da sushi e lo fece vedere a Clara.
Il cellulare di Clara vibrò due volte, prese il telefono, lo sbloccò e lesse il messaggio, prima per sé, poi ad alta voce; “Il treno su cui tuo padre stava viaggiano ha avuto un deragliamento, non si hanno sue notizie, ci sono ancora molti dispersi e parecchie vittime da riconoscere. Baci mamma.”
Clara ed Elsa si guardano negli occhi, il destino aveva già deciso per loro, non dovevano sporcarsi le mani, non dovevano fare niente, solo aspettare e sperare. ” Se solo torna vivo io l’ammazzo, non può scamparsela così.” Clara rise, rise di quell’amica che era pronta ad uccidere per lei, quella che c’era sempre. Elsa si spogliò, rimase in mutande e canottiera, si mise sotto le coperte con Clara e insieme, per un momento, non pensarono a niente, presero patatine e altre schifezze varie e si misero a guardare un film, poi si addormentarono felici, sempre una abbracciata all’altra.
Alle 16:30 del pomeriggio, minuto più, minuto meno, la porta di casa si aprì e si_ chiuse, Clara sobbalzò dallo spavento, sentì le chiavi tintinnare contro il piattino portaoggetti dell’ingresso, poi le scarpe di sua madre finire sul pavimento, si alzò dal letto e andò a salutarla. Appena la vide non la riconobbe, era diversa, vuota, triste e felice allo stesso tempo. “Lo hanno ritrovato. E’ vivo, resterà paralizzato, ma è vivo. Ora se non ti dispiace, vorrei restare da sola.” Clara non riuscì a proferire parola, si girò e tornò in camera. Chiuse il computer e svegliò Elsa con una piccola spintarella. “Ho delle notizie, se siano buone o no me lo dirai tu.” “Dimmi, ti ascolto.” “E’ paralizzato, non può muoversi, non può più farmi male.” Elsa fece un sorriso, quasi urlò ma Clara prontamente le mise una mano sulla bocca. “Vestiti, muoviti, mia madre vuole stare da sola quindi e meglio se ce la filiamo.” “Okay.” Elsa raccolse i vestiti da terra, dove li aveva lasciati prima, e si rivestì molto velocemente. Clara aprì l’armadio e prese un paio di jeans, una maglietta ed una felpa, si mise le calze e si infilò le scarpe da ginnastica. Uscirono di corsa dalla stanza. Clara prese frettolosamente la giacca ed insieme ad Elsa uscì chiudendo dietro di sé la porta d’entrata. Scesero i gradini a due a due per arrivare il prima possibile fuori dall’edificio. Iniziarono a saltare, correre, scherzare, ridere.
Non sapevano cosa stesse accadendo ma si sentivano leggere, felici, per una volta non avevano niente a cui pensare. Salirono sul primo autobus che arrivò e scesero poche fermate dopo, corsero più veloci che poterono, fecero a gara a chi arrivava prima e una volta raggiunto il primo scalino della gradinata si fermarono, si guardarono, si presero per mano, e gridarono. Gridarono più forte che potevano, si fecero sentire da tutto il quartiere, da tutto i passanti, spaventarono gatti e colombi, ma ne valse la pena. Era incredibile; erano inebriate erano tanto felici da far schifo. Neanche loro ci credevano, come potevano essere felici di una cosa tanto brutta? Eppure lo erano e se ne fregavano, stavano così bene che le domande che frullavano nelle loro teste, magicamente non avevano più un significato. Erano insieme, non c’era nient’altro di più bello. Sedute vicine, sul primo gradino di quella scalinata poco trafficata, che si affacciava ad un giardinetto, con di fronte il mare che si confondeva col cielo e più a sinistra le colline. Ora tutto aveva un sapore diverso, il giardinetto era allegro, i bambini che vi giocavano erano felici, gli alberi che si muovevano a ritmo col vento, frusciavano delicatamente, dal mare salivano le strida dei gabbiani, gli occhi, che una volta erano spenti, ora risplendevano di luce propria e continuavano a sorridere anche quando Clara era seria. Elsa era tornata per un momento una bambina, giocava con le onde dei suoi capelli, a tratti sorrideva, poi, tornava ad immergersi nei suoi pensieri. Entrambe scrutavano il mare, come se fossero in cerca di qualc6Sa„ di qualsiasi cosa: un segno, un orizzonte, un nuovo obbiettivo. Sapevano che la guerra non era finita, ma una battaglia, almeno, era stata vinta. Clara era libera. Libera dal mostro che per anni l’aveva maltratta, facendola sentire meno di uno zerbino. Ora si chiedeva cosa avrebbe potuto fare, dove sarebbe potuta andare, sapeva che sua madre era dalla sua parte e che le avrebbe permesso di fare tutto: tingersi i capelli, viaggiare e scoprire il mondo, cose che fino a quel momento per lei erano state dei tabù, non sapeva ancora cosa volesse dire vivere, ma era certa che adesso sarebbe rimasta a galla.
Non era sola, con lei c’era Elsa, che l’avrebbe portata a fare scoperte incredibili e che con lei avrebbe volentieri girato il globo, anche due volte se una non fosse bastata.
Di lì a poco, il sole, cominciò a tramontare e l’orizzonte si fece arancione. Quella giornata era terminata. Non se la sentivano di tornare a casa; Elsa non voleva restare sola dopo tutta quella gioia e Clara non sapeva cosa avrebbe potuto trovare a casa, forse il caos, forse la quiete, non le interessava. Voleva godersi il momento per poterselo sempre portare dietro, come ricordo di spensieratezza.
Restarono li, fisse sul mare, sedute una accanto all’altra, come demoni in cerca di pace. La storia era appena iniziata.