IL LATO OBLIQUO DELLE COSE

PRIMA CLASSIFICATA

MADUSSI ANNA

ISIS “Marchetti” Gemona del Friuli

Il lato obliquo delle cose

 

L’auto sobbalza e il mio riflesso nel finestrino fa un salto assieme a me, mentre mia madre guida come fossimo a un rally. “Mamma!”, le urlo con una faccia sconvolta, e lei dallo specchietto mi lancia uno sguardo tranquillo e sicuro.

Prima che mi dimostrasse le sue abilità alla guida, stavo cercando di immaginare il mio riflesso con il nuovo taglio di capelli che alla fine mi è stato concesso di fare. t arrivato il momento di scegliere qualcosa di nuovo a mio piacimento, voglio dire: ho sedici anni, potrò finalmente decidere da me? Ma ho dovuto discutere con calma con lei prima di poter avere la sua autorizzazione, così che le forbici della parrucchiera compiano quel gesto che sogno da anni. Lei crede che non abbia capito perché non vuole che cambi pettinatura e quindi aspetto, invece io lo so: ho visto alcune sue foto da giovane e ho notato, impossibile non farlo, che siamo due gocce d’acqua. No, non lo dico perché è una frase a effetto, è proprio così: stessi capelli neri e stessa lunghezza, stesso colore e stessa forma degli occhi. Lei non vuole che questo nostro legame e che la sua giovinezza, che rivive in me e nel mio assomigliarle, vengano recisi da un colpo di forbice.

Ho conquistato la vittoria senza commettere l’errore di usare un tono insolente o arrabbiato. Mi ricordo perfettamente come, nel bel mezzo di una cena tranquilla, ho sganciato la bomba, ho innescato la miccia…ditelo come preferite, fatto sta che ho esordito con un simpatico: “Ma sapevate che alcuni dei più antichi esemplari di cesoie risalgono al 300 a.C.? Mentre le prime cesoie a perno, molto simili alle forbici dei giorni nostri, risalgono al 100 d.C. e sono dell’epoca romana. Quindi cosa ne dite di questo strumento? Voglio dire. se è utilizzato da così tanto tempo significherà pur che è utile ed efficiente, e quindi, se questo si adagiasse sui miei bei capelli e tagliasse, il risultato non potrebbe che essere bello, non è vero”?. Mia madre, ok scena tipica da film, ma lo giuro che è andata così, stava bevendo e per poco non ha sputato l’acqua sullo spezzatino. Dopo di che, ha infilzato un pezzo di carne con la forchetta e con fare minaccioso e inquisitorio, scuotendo la posata con vigore come fosse stata una maracas (sporca di sugo per altro, quindi stava schizzando dovunque, roba che se l’avessi fatta io sarei finita in punizione per un mese) e mi ha risposto con un “cosa vorresti dire?” dal tono poco rassicurante. “Alea iacta est”, direbbe il mio insegnante di storia, punto di non ritorno superato: oramai non potevo ritirarmi. Con una tranquillità ed una pazienza anormali, ho illustrato a mia madre tutti buoni motivi per far sì che queste benedette forbici tagliassero in modo “drastico”, parole di mia madre, il mio “patrimonio” in un caschetto semplice e ordinato.

Ero determinata a raggiungere quel cambiamento radicale quanto fondamentale: la massa nera, lunga, indomabile pesante significava portarsi sempre appresso la sua ombra, il che è una cosa positiva fino ad un certo punto.

Mio padre guardava la scena divertito, assieme a Letizia, mia sorella, che mentalmente faceva il tifo per me perché sapeva che se avessi vinto io ci sarebbe stato in automatico un vantaggio considerevole anche per lei. La discussione è poi proseguita, ma ho cercato di prenderla per sfinimento, perché “gutta cavat lapidem”, o in questo caso, forfex tondet capillum, che non ha molto senso e non c’entra con il proverbio latino, ma calza a pennello con la situazione che si sta per realizzare, infatti alla fine, con grande gioia della sottoscritta e rammarico di mia mamma, ho vinto io. Mentre ci penso il riflesso del finestrino mi restituisce un sorriso soddisfatto ma anche trepidante, desideroso di vedere le due estremità della forbice allontanarsi e avvicinarsi, tagliare le lunghe ciocche corvine che mi arrivano fino a metà della schiena, liberarmi da quel carico che inizia a diventare insostenibile.

Entriamo nel salone e siamo inondate dal profumo dr lacca a shampoo che aleggia quasi prepotentemente. Mia madre si siede con aria afflitta sui divanetti d’attesa e io faccio lo stesso con un sorriso che può essere definito solo come ‘ebete’, ma che non riesco a levarmi di dosso. Si gira verso di me e inchioda le sue pupille nelle mie: “Se ci hai ripensato sei ancora in tempo per dirlo…”. Esito un attimo, ma no: io e lei non possiamo più rimanere uguali. Le rispondo con un “Sono convinta al 100%.”. Non ha il tempo di replicare che ci raggiunge Marika, la parrucchiera, per dirmi che posso accomodarmi ai lavandini. Mentre parla intravedo le forbici nel suo grembiule nero, circondate da una marea di forcine e spazzole colorate, che spiccano sul tessuto scuro con il loro riflesso argentato e brillante che, quasi fossi una gazza ladra, ha attirato la mia attenzione. Tutto procede come sempre, eppure io so che stavolta qualcosa andrà diversamente. Arriviamo alla postazione dedicata al taglio e noto, con un certo fastidio, che mia mamma alza di tanto in tanto gli occhi dalla rivista che finge di leggere, per guardare il mio riflesso nello specchio e lanciarmi occhiate significative.

Smetto di incrociare i suoi occhi e ammiro per l’ultima volta l’ammasso di capelli umidi e pesanti, tanto da sbilanciarmi la testa all’indietro, che rappresentano proprio quello che sento ogni volta che qualcuno pronuncia le parole ‘Ma quanto assomigli alla mamma, immagino tu sia anche brava come lo è stata lei alla tua età’, dette soprattutto da zie lontane e sue conoscenti, che non fanno altro che paragonarci.

Marika mi abbandona un istante per recuperarmi alcune riviste in modo che possa ingannare il tempo durante il taglio, ma non desidero altro che ammirare come quel peso mi verrà tolto dalle spalle, letteralmente. La ragazza procede con lo spazzolarmi per poi estrarre il fatidico oggetto dal grembiule, impugnandolo nella mano destra con maestria, tenendo nella sinistra un pettine. Mi chiede quello che vorrei fare e il ‘sorriso ebete’ vacilla sotto un ultimo dubbio. “Ne sei sicura?” incalza Marika. Rivolgo un’occhiata a quella donna alla quale assomiglio così tanto e rispondo con un ‘sì’ semplice e diretto che non lascia trapelare altro se non un’ostinata convinzione. La parrucchiera finalmente si decide: separa le due lame della forbice e le avvicina a una piccola ciocca, facendole poi ritrovare e provocando uno ‘zac’ simpatico e netto che segna l’inizio del cambiamento.

Con la cada dell’occhio incrocio il viso di mia mamma, e sulle sue labbra si disegna un piccolo .sorriso, come se non fosse arrabbiata con me per la mia scelta. Se possibile il mio, di sorriso, cresce ulteriormente, anche perché le ciocche sul pavimento stanno aumentando e posso sentire una lieve ventata che mi arriva sulla parte di collo non più abituata a percepire quel fresco sollievo a causa della massa corvina che, di solito, lo copriva. Guardo attraverso lo specchio e vedo un ciuffo ricurvo di capelli che, in seguito ad uno ‘zac zac’, precipita verso il parquet e mi ricorda la cometa delle stelle cadenti nelle notti di agosto, solo che ora ho la certezza che il mio desiderio si è avverato e non è rimasto una delle tante frasi sospese nel vuoto.

Marika procede col suo lavoro aprendo e chiudendo senza sosta le forbici, facendomi ascoltare la melodia ritmata di due lame che si incontrano, regalandomi un taglio che mi piace un .sacco; persino mia mamma ha abbandonato la sua aria afflitta e mi guarda con curiosità dai divanetti. La parrucchiera ha quasi ultimato l’opera, e con il pettine aiuta le forbici a seguire una linea dritta in modo da non creare sbavature nel caschetto, poi si dedica all’ultima estremità rimasta lunga. Per posizionare lo strumento vicino alla ciocca, con l’altra mano urta involontariamente il mio orecchio destro e mi sposta la farfallina della perla che porto. Sento che questa scivola giù e cade. Per evitare di perderla mi abbasso con un movimento troppo rapido proprio mentre Marika avvicina con uno Pzacv più secco e deciso degli altri le due lame e trancia un ciuffo, che osservo cadere di fianco a me e posizionarsi vicino a ciò che stavo cercando. Non mi piace quello che vedo. Con orrore raccolgo la ciocca irregolare e la parte dell’orecchino che era caduta, guardando la prima quasi in lacrime. Non ho il coraggio di affrontare l’irreparabile: rimango a fissare quei capelli ormai tranciati via. In sottofondo le scuse inutili di Marika e la maledizione a me stessa per essermi mossa senza riflettere.

Quando mia madre si avvicina a me e alla parrucchiera,

alzo gli occhi e con i brividi osservo:

una linea obliqua che stride,

perché rovina il taglio

in sé, ovviamente,

ma non solo.

Rovina il momento, che avrebbe dovuto essere di grande trionfo. Peggio: il segno di quel cambiamento, che sentivo così necessario, è rovinato. no provato a sfidare me stessa e mia madre, e ho fallito. Mi restano la delusione nello sguardo, i brividi lungo la schiena, incrementati da qualche capello scivolato nella maglietta che ora mi fa solletico, e le mani fredde. Alla proposta di Marika di sistemare il taglio scuoto il capo.

Il viaggio di ritorno è sempre una sfida a non scivolare giù dal sedile, ma stavolta niente sorriso trepidante riflesso nel finestrino. Solo l’odore di lacca e shampoo, che è rimasto appiccicato ai nostri vestiti, e una canzone alla radio ci accompagnano verso casa. t una delle preferite da mio zio:

“In an instant lite could change, now and then, begin again”

Parole che sembrano fatte apposta per ciò che provo. Il colpo di forbici ha certamente cambiato i miei piani eppure, secondo la canzone, almeno,si ricomincia e si va avanti.

Osservo furtiva mia madre alla guida e si, ci assomigliamo proprio un sacco, ma almeno adesso, a causa -o per merito- di quelle due lame che si sono avvicinate quando non avrebbero dovuto, siamo diverse.