LA CRISALIDE
La prima volta che sorrisi avevo sedici anni, e fu bellissimo.
Con questo non voglio dire che prima di quel giorno non lo avessi mai fatto. Certo, mi era successo più volte, magari per una foto, o davanti alla torta di compleanno, con quell’espressione imbarazzata negli occhi che sembra chiedere aiuto mentre tutti attorno a te stanno cantando Tanti Auguri e tu te ne stai lì, immobile, senza sapere cosa dovresti fare di preciso, e quindi sorridi. Mi era successo con i miei amici, a volte, oppure mentre suonavo il pianoforte in camera mia.
Però non è uguale, sai.
Sorridere spontaneamente, di gusto, e poi ridere, ridere forte, con il cuore che ti pulsa in fronte per tutto quel mucchio di gioia che improvvisamente si ritrova a dover contenere e che quasi non riesce a farlo, perché è così piccolo. No. Non è decisamente la stessa cosa. E così successe, quella mattina, che in verità proprio mattina non era, perché il sole stava ancora sorgendo, non si era già del tutto sistemato lassù, nel suo pezzo di cielo, sulla sua poltrona fatta di nuvole. Era un’alba, un’alba rosa, quindi diciamo che il sole stava ancora uscendo dalle lenzuola.
Una settimana prima, avevo visto in tv un documentario sulle farfalle. La storia la sanno tutti, quella del bozzolo intendo, ma quelle immagini mi erano rimaste impresse nella mente come fossero state dei quadri e un piccolo ornino, rinchiuso nella mia scatola cranica, le avesse inchiodate lì, nella mia testa, con chiodo e martello, e da lì non le avesse più spostate.
Ci avevo pensato sù tutta la notte.
Una crisalide.
Ecco dove avevo passato tutti i sedici anni della mia vita. In un filo di seta arrotolato attorno a me, stretto, soffocante, fino a paralizzarmi e rinchiudermi del tutto.
Una crisalide.
E non avevo fatto assolutamente niente per evitarlo.
Così, il giorno dopo, decisi che era giunto il momento di uscire da tutta quella seta che mi imprigionava, perché stava iniziando a bruciare sulla pelle, stava iniziando davvero a fare male ovunque.
Inspira. Espira.
Mi distesi per terra e trascinai lentamente il borsone fuori da sotto il letto. Uscii di casa senza fare rumore, senza pensarci sopra, con ancora le All Stars slacciate. Un passo dopo l’altro, veloci, ed io con gli occhi bassi, osservando le gambe andare da sole. Mi sentivo come se stessi imparando a camminare per la prima volta, con le gambe tremanti e il cuore così tremendamente insicuro. à così brutto essere fragili. Un soffio di vento e ti spezzi, come un castello di carte che crolla appena lo sfiori. Aumentai il volume della musica per creare quell’invisibile bolla di vetro che mi avrebbe protetto da tutto, l’unica cosa che davvero mi facesse sentire al sicuro, isolandomi dalle auto, dai passanti, rendendo ovattati le voci e il suono dei clacson là fuori. Il campetto da calcio si trovava a soli due isolati da casa mia, ancora un paio di curve ed era fatta.
Ed eccoli. i ragazzi erano tutti là. Avevano già iniziato a giocare.
Inspira. Espira.
Raccolsi i capelli in una coda e la infilai nel capellino rosso che mi aveva regalato mamma per la promozione all’esame di piano al conservatorio l’anno prima. La mamma. Già.
Scusa, mamma.
Entrai nel campetto correndo e tutti mi salutarono con un cenno della mano, già coperti di sudore. Saranno stati all’incirca della mia età, li conoscevo appena, di alcuni nemmeno sapevo il nome. Mi piacevano proprio per quello: non sapevano minimamente Chi io fossi. Conoscevano solo me che giocavo a calcio, “capo cannoniere” mi chiamavano, e mi battevano sempre il cinque, a volte mi
abbracciavano anche, quando ‘segnavo. Mi tiravano pacche sulle spalle. Mi sorridevano. Perché facevo parte dì una squadra davvero, no?
Facevo parte di qualcosa.
Anche quel giorno segnai, tre volte per la precisione, e le mie gambe non tremavano più. E urlai al sole, lassù, nella sua poltrona fatta di nuvole, che ce l’avevo fatta, che avevamo vinto, e tutti urlarono con me, forte, con le mani al cielo, in quel campetto di periferia dimenticato dal mondo, ragazzini dimenticati dal mondo.
Ci salutammo.
Tornai a casa.
Mamma non ne sapeva nulla del campetto e dei miei compagni. Non sapeva che mi chiamavano Totti. Non sapeva che era grazie a me se la mia squadra vinceva sempre. E quella settimana tirai fuori il borsone da sotto al letto, uscii piano di casa e giocai a calcio ogni giorno. Ogni giorno. E la crisalide si faceva sempre più sottile.
Poi arrivò quell’alba. Non avevo dormito per tutta la notte, di nuovo. Forse perché la notte era diventata la mia migliore amica. Il nero che ti sovrasta, ti avvolge, ed il silenzio. Il silenzio forte. È tutto così calmo di notte. Il caos del giorno che si scioglie in inchiostro nero, petrolio, e tutto torna in quiete, al suo posto. In ordine. Ed il sole uscì dalle sue lenzuola. Dalle tende bianche della mia camera iniziarono ad entrare dei fili di luce rosa che illuminavano i minuscoli pallini di polvere sospesi in aria.
in quella quasi mattina, qualcosa si ruppe dentro di me.
Dormivano ancora tutti.
Inspira. Espira.
Andai in bagno e chiusi la porta alle mie spalle. Guardai il riflesso con la coda dell’occhio ed il fiato sospeso, e sotto sotto sperai che quello che avrei visto fosse cambiato durante quella notte, anche se sapevo che non sarebbe davvero potuto succedere. Ma pregai lo stesso di vederci un’altra persona su quel vetro appannato per metà. Perché faceva male. Perché non ce la facevo più. E invece no. Eccola. Di nuovo quella persona.
Ti odio.
Lo dissi ad alta voce. Fu la prima volta che le mie corde vocali vibrarono al suono di quelle parole. Lo dissi guardando il mio riflesso dritto negli occhi. Poi gli occhi si riempirono di lacrime, e le lacrime si riempirono di rabbia, ed iniziarono a scorrere veloci giù, e le mie labbra si aprirono per prendere più aria possibile perché non riuscivo a respirare, faceva troppo male, più del solito, basta basta basta. Aprii il cassetto bianco e vidi le forbici. In quel momento mi sembrarono l’oggetto più bello del mondo. Così lucide, argentee, lunghe ed affusolate come le dita di un pianista, perfette. Vi infilai le prime tre dita con delicatezza, aprendo e chiudendo quelle lame davanti ai miei occhi piano, una volta, due, tre, senza nemmeno avere il coraggio di respirare guardandole. Con l’altra mano raccolsi tutti i capelli in una coda alta. Scusa, mamma.
Inspira. Espira.
Tagliai.
E la crisalide cadde e si frantumò al suolo.
Giuro che sentii il rumore di quel maledetto guscio rompersi a terra in mille pezzi, e respirai tutta l’aria del mondo come quando si rialza la testa fuori dall’acqua dopo una vasca in apnea.
Tornai a guardare davanti a me. Eccomi. Ciao. È la prima volta che ci vediamo. Finalmente. Mi asciugai una guancia con il dorso della mano. Strinsi le forbici così forte da farmi male, ma la verità è che non soffrii nemmeno, anzi, amai quell’argento tagliente più di qualsiasi altra cosa al mondo in quell’istante. Tagliai e tagliai ancora e ancora, le forbici parevano essere una continuazione naturale del mio braccio, e i capelli cadevano a terra in continuazione, fino a quando mi piacque ciò che avevo di fronte a me. Passai le dita nel ciuffo biondo che cadeva leggermente sopra la mia fronte ed eccomi lì. Un ragazzo felice, un po’ ansimante, con gli occhi lucidi, le mani tremanti e delle forbici da parrucchiera in mano, ma felice.
E così brutto essere fragili, sai. Ma illuminato da quell’alba rosa che si infiltrava curiosa dalla finestra, mi sentii un po’ più forte. Scusa, mamma. Avrebbe pianto tanto. Non avrei mai voluto deluderla, ma non ne potevo più. Non ne potevo più di mettermi le gonne alle cene di famiglia, farmi truccare dalle mie amiche i sabati sera perché casi sei più bella. Non ne potevo più delle urla di mio padre perché non ero una figlia normale. Ed era vero.
Perché io non ero una figlia.
Io ero un ragazzo di sedici anni, e lo ero sempre stato, fragile come un castello di carte, con un borsone da calcio sotto al letto e un filo di seta stretto intorno a lui da quando era nato. Ma in quella quasi mattina la crisalide la tagliai con un paio di forbici argentate, e volai più in alto di tutte le farfalle del mondo.
La prima volta che sorrisi avevo sedici anni, e fu bellissimo.