CHIUDI GLI OCCHI, GIOELE!

CHIUDI GLI OCCHI, GIOELE!

 

“Sveglia! Forza svegliati, non ho tempo da perdere!” con un grido acuto mi sveglia mia madre. Apre la porta con forza, lasciandola sbattere sulla parete: sbam! Resta lì arcigna e mi guarda, il volto violaceo: neanche questa volta è riuscita a comprare le scarpe che le piacciono. Stanca e provata mi trascino alla porta, la apro; percorro con lentezza indicibile il lungo corridoio, poi vado in cucina, bevo un sorso d’acqua, non c’è altro, non c’è tempo. Mi vesto e vado incontro a mio padre. Vicino a lui c’è come sempre Beta, pronto a partire per la missione. Mio padre gli porge una crocchetta che lui euforico spazzola via con una leccata. Sono le 5.00 ed è ora di partire. Mio padre prende gli attrezzi necessari e imbocchiamo un sentiero tortuoso nel bosco. “Bum!” dalla pistola di mio padre è partito un colpo centrando, dritto dritto, il tenero ventre di una lepre. L’animale ansima a terra. Vedo il torace alzarsi e abbassarsi ritmicamente nella pozza di sangue scuro; mi padre è fulmineo: quattro balzi e raggiunge la bestiola ferita, poi con un colpo di coltello la mette al tappeto.

Già, mio padre non è un avvocato, un medico come i padri di Giulio e Francesco, non è nemmeno un muratore o un panettiere come i padri di Franca e Marcella Mio padre va a caccia e spesso lo fa… illegalmente. Per questo non posso raccontarlo in giro. Diciamo che è un nostro segreto. Forse nemmeno lui ne va tanto orgoglioso, ma pare renda quel tanto che consente a mio padre di cercare di accontentare mia madre, la nostra regina. Ogni suo capriccio è un ordine. Credo papà abbia paura di perderla, quando forse questa sarebbe forse a nostra fortuna più grande… Non devo pensarci. Oggi è il mio primo giorno di scuola ed è iniziato alla grande. Mio padre ha preso la lepre, l’ha caricata nella jeep ed è partito per andare da Lello il suo amico macellaio a vendere il suo premio. “Gioele, che ne dici, sarà contenta mamma?” Sorrido per compiacerlo. Sono le 7.30 e tra un po’ sarò in ritardo per andare a scuola

Mia madre non pensa alla famiglia, lei con i soldi che guadagna papà si compra vestiti, scarpe, borse… la sua è una vera fissazione. Passa le giornate su siti online alla ricerca di quelli che lei chiama “affari imperdibili”. Non credo le interessi molto di papà e nemmeno di me. Forse si immaginava un futuro diverso… Gioele, basta! Pensa positivo.

“Papà, se passiamo a casa arriverò tardi. Dammi tu uno strappo a scuola!”

“Hai ragione, Gioele. Speriamo che tutto questo tuo studiare serva a qualcosa!”

“Ne abbiamo già parlato papà…” Lo saluto e corro su per le scale. La campanella sta suonando.

Con un terribile mal di pancia entro a scuola e la preside è nella segreteria che mi attende. Con una voce acuta ma gentile mi dice: “Buongiorno! Tu devi essere Voltenti. Un po’ in ritardo…Prego, vieni. Non avere paura, la tua classe ti piacerà!” Dopo tre piani arrivo finalmente nella mia classe. I banchi sono disordinati, i libri sul pavimento e il cestino straborda di cartine di barrette al cioccolato. Ho una paura tremenda dei miei compagni; mi siedo in primo banco, l’unico vuoto. “Gioele Voltenti?… Ma sei una femmina!” Eccoci alle solite. Gioele è un nome da maschio.., forse c’è un errore… Gioele o Giaele? Davvero Gioele? Che strana scelta… Ormai non ci faccio più caso. “Si GiO-e-le, prof. Hanno scelto così”. Ormai è fatta: prima ora in una scuola nuova e sono già marchiata: quella col nome da maschio! E ancora non sanno niente di me… Per tutta l’ora di lezione i miei compagni mi spingono la sedia, mi calciano lo zaino o mi tirano addosso oggetti. Dapprima sono solo palline di carta, poi iniziano a piovere pezzetti di gomma, poi i tappi delle penne… ehi ma che avete? Fanno male! Forse se continuo ignorali la faranno finita… e la prof che fa? Com’è possibile che non se ne accorga? Inizio a sognare ad occhi aperti. Sono lontana, sono lontana… Per tutta la merenda i miei compagni mi spingono, mi lanciano occhiate e mi gettano addosso insulti sui miei vestiti o sul mio fisico e ovviamente sul mio nome così stupidamente ambiguo! La campanella suona e torno in aula: meglio fare da bersaglio ai bombardamenti dei compagni che continuare a subire occhiatacce e sentire commenti non richiesti. Torno a sedermi e le professoresse delle ultime ore non si accorgono nemmeno di me, d’altra parte che altro potrei aspettarmi se mia madre per prima tende a dimenticarsi di me?

Fuori di scuola come previsto non trovo nessuno: mia madre non si è degnata di venirmi a prendere. Non ho un soldo in tasca e lo stomaco brontola. Sono usciti tutti anche gli ultimi prof. se ne stanno andando “Gioele, non vai a casa?” “Non si preoccupi prof. Mia madre ha avuto un contrattempo, mi ha già chiamata. Arriverà tra poco” Sono brava a mentire. Lo faccio da quando ho imparato a parlare: fa parte del kit di sopravvivenza di casa Voltenti. La prof. mi saluta. Io resto sul muretto della scuola ad aspettare. Alle quattro vedo sbucare dall’angolo mia madre con una calma da lumaca e una destrezza da bradipo. Parcheggia. “Muoviti! Chiudi la portiera dell’auto! Voglio andare a casa per distendermi sul divano e dormire. Sei la mia dannazione!” Ora di chiudere i contatti con il mondo esterno, il ciclone Maria sta per abbattersi sull’isola Gioele “Come vuole mia padrona!” sussurro e sono altrove.

Martedì. Nuova spedizione di caccia e poi scuola. Sono stanca. Forse mio padre spera che fiaccandomi alla fine questa mia mania della scuola passerà. Non sa che i miei compagni sono molto più bravi di lui: ce la mettono davvero tutta per farmi odiare la scuola. Varco la soglia e… non c’è nessuno! Non c’è traccia né della prof. né dei miei compagni. Forse oggi non c’è scuola. Ma nessuno mi ha avvisato. Quindi forse… Una mano grande e sudaticcia mi spinge e cado sul pavimento, finendo sopra a una gomma da masticare. I miei compagni sono arrivati. Hanno varcato la soglia come se fossero dei re. “Voltenti, ma sei proprio sicura di essere una femmina?” Si mette male, ma per fortuna entra la professoressa di italiano e iniziamo a fare lezione, quattro ore di lezione che passano lentissime. Finalmente arriva la quinta ora. Dalla porta entra un professore magrolino, alto con capelli corti e una leggera barbetta sul mento. “Forza ragazzi, veloci. Si va in palestra!” Mentre tutti i miei compagni vanno a cambiarsi, il prof. mi prende da parte: “Salve! lo sono Giacomo Alberti, il professore di ginnastica. Ci vedremo sempre il martedì alle ultime due ore. La preside mi ha raccontato di te. Se non sbaglio tu devi essere Gioele Voltenti”. “Sì, signore. Mi sono trasferita da poco dalla Sicilia”. Evito di dire che lì papà ha avuto qualche guaio con la giustizia… speriamo non me lo chieda. Il prof. scoppia a ridere e io lo guardo perplessa. Ma che avrà da ridere? Che sappia già tutto di papà? “Scusa, non intendevo metterti in imbarazzo oppure prenderti in giro, ma nei miei anni di poca esperienza non mi è mai capitato che un ragazzo mi rivolgesse la parola dicendo ‘Sì signore”. “Scusi” gli rispondo “non colloquio quasi mai con le persone… forse non sono abituata ad esprimermi nel modo opportuno”. Il prof. allora mi guarda con una faccia tra lo stupito e l’incredulo come se dicesse “non parli con nessuno? E come mai?”. Ma io mi vergogno della mia vita e dei miei genitori, quindi per evitare questa domanda troppo intima e imbarazzante taglio corto: “Adesso devo andare a cambiarmi, posso andare?”. Il prof evidentemente spiazzato mi fa cenno di sì. Intanto i ragazzi stanno già facendo il riscaldamento mentre io devo appena cambiarmi. Finite le due ore, esco di scuola e trovo a sorpresa mia madre: “Ciao mamma, com’è andata la giornata?”. Credo che stia massaggiando con una sua amica, perché non si è accorta della mia presenza. Il vento è molto forte e per proteggermi mi giro dalla parte opposta. Mi accorgo che sul portone c’è il professore di ginnastica che mi fissa. Ma cosa vuole? Tiro su il cappuccio fino a scomparirvi dentro. Forse nel buio dell’ombra mimetizzerò il volto violaceo dalla vergogna, mi avvio verso la macchina. Avrà visto mia madre? Avrà notato la sua indifferenza? Almeno questa volta è sobria.

Il giorno dopo a scuola durante la lezione di matematica, il professore di ginnastica mi chiama. Esco dalla porta e vedo due omoni della polizia. La mia mente è completamente vuota; cosa ho fatto? cosa ho sbagliato? “Gioele, vuoi seguirci? Questi due uomini sono della polizia, sono venuti per parlare con te e affidarti momentaneamente a una famiglia …migliore”. Migliore? Che ne sapeva lui di me fino a ieri? “Perché? Che volete da me? lo ho già una famiglia e non accetto di averne un’altra”. Non so cosa fare e inizio a correre. Scendo le scale, attraverso il corridoio, dietro di me sento i due uomini della polizia con il fiatone. Mi manca poco per uscire ma di colpo entra un altro uomo. Mi ferma, mi prende e mi porta in macchina. Arriviamo in un posto, credo che sia la centrale di polizia. Dopo un’ora di domande senza risposta, mi mandano da uno psicologo… un altro. Credevo che questo strazio fosse finito, di averlo lasciato insieme al profumo dei limoni in Sicilia! Vorrei scappare ma dietro di me ci sono due uomini della polizia: ogni tentativo finirebbe prima di incominciare. Per la notte mi mandano in una camera. Io non riesco a dormire e mi limito a pensare alla mia famiglia. Non ce la faccio a sopportare questo peso. Non pensando, apro lo zaino e trovo il coltello. È uguale a quello di mio padre, me lo ha regalato lui: un fox- defender. È totalmente nero, cupo, scuro come il mio cuore, e ha una lama non chiudibile, super appuntita su cui è inciso il numero del modello. Sul manico di cuoio ci sono delle strisce. Sono così piacevoli al tatto. Chiudo gli occhi e con velocità la lama taglia la pelle, incide la vena. Cosa ho fatto? Inizia a uscire sangue. E come quello della lepre, non sento più nulla. Sono anni ormai che non sento più nulla. Chiudi gli occhi Gioele… sei lontano, lontano.