LA TASCA DELLA MEMORIA
Laura Nadin
Liceo “Leopardi Majorana”, Pordenone
Sotto il volante della mia auto, sulla destra, c’è una piccola “tasca” in cui teniamo i ricordi più belli: i ciucci dei bimbi, la lettera con le promesse di nozze e una foto di famiglia. Ah dimenticavo, anche un coltellino, un coltellino artigianale della zona friulana pieno di lame nascoste. Lo aveva comprato il mio papà in uno dei suoi viaggi, in una delle sue avventure; ora lui non c’era più ma il suo ricordo stava lì nella tasca della memoria.
Avevo creato la tasca della memoria perché passavo la maggior parte della mia vita in auto: andare e tornare dal lavoro, portare la piccola Margherita a nuoto, i gemelli uno a basket e l’altro a calcio e Giulia la più grande a ginnastica. Mio marito era continuamente in viaggio per lavoro quindi toccava sempre a me fare l’autista; ma non è mai stato un problema perché vedere Margherita fare un’intera vasca in apnea, Marco fare canestro, Luca segnare un gol e l’energia di Giulia nel suoi saggi mi hanno sempre ripagata, insomma per i sorrisi nei loro volti valeva la pena correre su e giù in auto. In più mi era sempre piaciuta l’auto, la musica mi rilassava e anche se i miei figli mi urlavano sempre che sono stonata, io cantando passavo ogni singolo minuto in quell’auto. In poche parole, quella berlina bianca era il mio posto preferito. O almeno lo è stato fino al 25 giugno 2019.
Era una giornata come le altre, forse più felice: la sera stessa sarebbe tornato mio marito dopo un viaggio di due settimane, ci avrebbe raggiunto direttamente in palestra per il saggio di Giulia.
Era lì che stavamo andando. Erano tutti saliti in macchina, tutti con le cinture, tutti trepidanti di rivedere papà. Partimmo come ogni altro giorno ma inconsapevoli di ciò verso cui ci dirigevamo.
Era la canzone numero otto del cd che avevamo fatto per l’estate. Sotto le note di pioggia viola accadde.
Fu rapido come un fulmine, veloce quanto la luce, fu un secondo. Non mi ero mai resa conto di quanto poco possa durare un secondo e di quanto possa cambiare. Fu questione di un secondo e la vita che facevamo prima era finita per sempre.
Ho avuto una giornata terribile. Lo diciamo spesso anche se non è successo niente di terribile: il caffè sulla maglietta nuova, il traffico in autostrada, un brutto voto a scuola. Be’ da quel giorno smisi di usare questa frase con superficialità. Ho avuto una giornata terribile ma io il 25 giugno l’ho avuta davvero.
Sotto le note di pioggia viola accadde. Sentii il botto del camion contro la mia fiancata, vidi Luca, che era seduto vicino alla portiera, venire assorbito da quella massa di ferro. Poi terra, erba e botte: l’auto stava rotolando colpita dall’impatto.
Fu come se il mondo si fermasse e poi ricominciasse a girare. Fu come se non fosse successo niente e poi fosse iniziato il panico. Fu come se tutto avesse potuto andare bene per poi accorgermi che le cinture si erano bloccate.
Vidi fuoco e capii che o uscivamo e in fretta o saremmo morti e presto. Ok. Calma. Respira. Respira. Ma fallo in fretta. Non riuscivo a uscire, i miei bimbi non riuscivano a uscire. Ero la loro mamma, era mio compito tenerli al sicuro ma non sapevo come. Ero incastrata come dentro a una di quelle morse in cui più ti muovi e più ti stringe. E poi come per un maledetto miracolo Io sentii con le mani, con le mie dita sporche di sangue e fredde come un morto, io lo sentii: il coltellino. Non era tanto, non era grande ma era qualcosa. Potevo usarlo, dovevo usarlo. Presi quel maledetto miracolo e con le forze rimastemi in corpo tagliai la cintura mia, poi quella di Giulia che a fatica uscì dall’auto, poi quella di Margherita e Marco che sanguinavano abbondantemente. Con il coltellino in mano mi girai dal Iato di Luca ma non trovai nessuna cintura…
Ed ecco il mondo fermarsi un’altra volta, lui non c’era e io avevo un coltello in mano. Sentii il mio corpo avvolgersi nel dolore, un tale dolore che smisi di provare male per mio corpo lacerato. Fui tentata di usare quel coltello per liberarmi del dolore come delle cinture. Ma poi il pianto di un bambino mi riportò alla realtà e uscii anche io da quella macchina infernale che poi prese fuoco.
Sul ciglio i miei piccoli piangenti e feriti non erano al completo. Non sapevo cosa fare, non potevo fare niente se non aspettare. Aspettare i soccorsi e pregare.
Credevo di vivere l’inferno ma non ero ancora arrivata al mio girone. Metallo, metallo che sbatte sul metallo e scesi un altro girone. Seguii il suono e vidi Lucifero. Luca era lì, schiacciato sotto un pezzo di camion con il ventre aperto e le fiamme al suo capezzale. Mi guardò e con voce fievole, quasi soffocata con il sangue che scorreva a ogni sua parola mi supplicò di porre fine a quella lenta agonia di un’evitabile morte. Mi supplicò. E io per un sorriso sul suo volto avrei fatto qualunque cosa. Il coltello nelle mie mani e le lacrime nel suo volto bianco più della luna scelsero per me. Poi tornai sul ciglio. E pregai Dio che il paradiso per oggi fosse pieno.
Riceviamo tutti dei regali a Natale, al compleanno, a un anniversario e molti di questi regali ci lasciano senza fiato, proviamo una gioia immensa, ci sembra che non possa esistere al mondo un regalo più bello e adatto a noi. Ma il suono di quella ambulanza che finalmente arrivava mi fece provare una felicità tale a cui confronto tutte le altre impallidirono.
Quel giorno feriti, mutilati e colpiti nel profondo continuammo tutti e quattro a respirare. Era una giornata come le altre, forse più felice. Ecco cosa mi aspettavo. Ma ciò che ti aspetti è solo l’inizio, ciò che non ti aspetti invece è ciò che cambia la tua vita per sempre. E da quel giorno nessuno fu più lo stesso, vidi la luce in Marco spegnersi, il sorriso delle mie ragazze sorgere a fatica, mio marito smettere di viaggiare, per non parlare poi di quello che gli altri videro in me.
Quel coltellino mi salvò la vita ma allo stesso tempo mi uccise, eppure ringrazierò Dio da oggi all’eternità per quel maledetto miracolo.