MASCHILE SINGOLARE
Maria Vittoria Capaldo
IC “Divisione Julia”, Trieste
dedicato a Corrado
É la vigilia di Natale e la città luccica come un immenso palcoscenico poco prima di uno spettacolo atteso. Si fa sera e io me ne sto raggomitolato in un angolo di quella che considero la mia casa: la palestra.
È il luogo più sacro che conosco: tra la sbarra e gli specchi ho provato lo smarrimento e l’euforia, la sofferenza e l’esaltazione.
All’altare della danza ho dedicato i migliori anni della mia vita e non me ne sono mai pentito, anche se il prezzo che ho pagato è stato altissimo.
Negli anni Ottanta, nella periferia di Roma, la danza era una faccenda da femmine. Nessuno conosceva la storia di Billy Elliot e io non assomigliavo neppure lontanamente a un cigno. Ero un undicenne sgraziato e massiccio, troppo alto e troppo sorridente.
Avevo però un chiodo fisso in testa: le scarpette per danzare.
I miei genitori erano semplici e fin troppo conformisti: nei quartiere non c’era posto per un aspirante ballerino. Tutti, anziani e ragazzi, nella migliore delle ipotesi si sarebbero fatti quattro risate alle spalle di un bamboccio effeminato e dei suoi sfortunati parenti.
Un giorno sono finito pure dal medico per le conseguenze di un esaurimento nervoso.
È stato un crescendo: più mi facevo grande, più si facevano pesanti gli attacchi alla mia stramba identità. Avrei voluto scomparire, invece gli altri mi notavano, eccome se mi notavano
Fui nel mirino anche quel giorno d’autunno in cui tutto sembrava al suo posto, nella pigra quotidianità della mia borgata.
È strano come i riti che amiamo possano in breve tempo assomigliare a spirali da incubo: il mio normale tran tran fatto di casa-scuola-palestra-casa era diventato un bolero pericoloso, di cui io ero il protagonista assoluto, o meglio la vittima assoluta.
A casa ti sbattono sul muso la colazione, senza neppure guardarti in faccia.
A scuola ti impegni al massimo solo per schivare i brutti voti dei prof e i cazzotti dei boss. Mica erano meno cattivi gli adolescenti quando non esisteva il cyberbullismo.
Poi arrivavi in palestra e pure lì non era una passeggiata: ore di esercizi alla sbarra, in mezzo a nuvole di tutù, per sentirti ripetere che la danza è una cosa seria e che sudore e concentrazione sono necessari come il pane.
E tu non riuscivi neanche a far merenda, perché il groppo in gola ti soffocava.
Ma non ti arrendevi perché avresti combattuto per il tuo sogno pure con i denti e con i coltelli.
Quel giorno ero uscito tardi dalla sala prove, al termine di una lunga serie di frustranti ore di allenamento.
A scuola mi avevano chiamato ancora “checca” e alla sbarra la maestra mi aveva urlato che non valevo una cicca. Faceva sempre così per spronarmi, perché il mio orgoglio reagisse e il mio presunto talento emergesse e fosse chiaro a tutti, una buona volta. Avevo buttato via il barattolo con le vitamine e pure la mia bella mela rossa e soda.
Nella sacca, tra gli indumenti umidi, mazzo di chiavi e il portamonete, mi restava il temperino: non mi è mai piaciuto divorare l’unico spuntino consentito in fretta, a morsi, con tutta la sua buccia. Volevo sputarla la buccia e tenermi solo il cuore.
Si trattava di un coltellino tascabile rivestito di smalto, con più lame ripiegate e chiuse nella cavità del manico. Grazie a lui, scoprii che una lama non può ferirti più di un insulto scagliato con disprezzo.
Autolesionismo. A quel tempo non conoscevo l’esistenza di questa parola, carica del dolore più viscerale. Sapevo solo che tagliarmi mi tranquillizzava. Mi chiudevo in bagno, tiravo giù il body furtivamente e cominciavo a mordermi il braccio con tutta la forza che avevo in corpo, finché una lacrima non si faceva vedere, grossa, sulla mia stupida guancia imberbe.
Poi mi incidevo la pelle nei luoghi più nascosti: volevo che la mia sofferenza prendesse forma, colore, odore.
Si faceva sempre più tardi e avevo lasciato la palestra. Stavo ormai attraversando il mio quartiere, quando ebbi l’impressione che qualcuno mi stesse seguendo. Sentivo dei passi, tanti piccoli passi di lepre, furtivi e scattanti.
In quel momento però nella mia testa un unico pensiero si avvitava all’infinito: come avrei potuto completare quelle maledettissime tre pirouettes nell’assolo?
Ero frastornato e arrabbiato. Nelle orecchie ronzava insistente l’eco del mio fallimento: i commenti sprezzanti dei miei genitori, gli sguardi sdegnosi dei vicini di casa, le risa sguaiate dei compagni di scuola, i sorrisi feroci delle ballerine, e poi le parole urlate, intolleranti, della maestra di danza.
Camminavo come un automa. A un tratto qualcuno mi fece lo sgambetto da dietro.
Caddi in avanti, con il muso spiaccicato sul cemento. Due adolescenti spilungoni cominciarono a scimmiottare alcuni passi di danza, sghignazzando come iene crudeli.
Mi strapparono la borsa e frugarono fra le mie cose. Cercai di alzami e di recuperare almeno il portafoglio, ma un pugno in pancia mi fece crollare a terra di nuovo, come uno stupido burattino.
Nel darsela a gambe uno dei bulli notò gli sfregi sul mio corpo indolenzito e commentò: “Te ne hanno date di botte, femminuccia … E si vede che te le meriti. Li mortacci …”
Quando fui di nuovo in piedi, scoprii che il temperino era ancora lì, fedele, ai bordi di un’aiuola.
Mi trascinai a casa e poi nel bagno. Con il coltello sfogai la mia rabbia.
Guardavo sangue scorrere in un lungo rivolo dal braccio fin sulle piastrelle di ceramica bianca. Non sentivo nulla. Era come se quel magro braccio ferito non fosse il mio.
Mi ferii ripetutamente fino a quando non mi sentii finalmente calmo.
In quel modo mi pareva di dominare almeno un po’ il disagio. E brutto da dire, ma il sangue è reale, è umano. Senza sangue non c’è vita, e forse con il sangue ne chiedevo una nuova, diversa. Il sangue mi aiutava a controllare il caos, le emozioni.
Sapevo che mi serviva aiuto, ma già non godevo di grande fama.
Se poi avessi ammesso di essere masochista, come sarebbe finita?
A chi poteva interessare la sorte di un ragazzo grassottello, effemminato e pure autolesionista?
Quella sera il sangue sulle piastrelle insospettì mia madre. Seguì una telefonata inaspettata: la mia maestra di danza aveva notato i segni sulle mie braccia. Non riuscivo proprio a essere invisibile, seppure lo desiderassi con tutto me stesso.
Seguirono le interminabili sedute dall’analista e i lunghi pianti di mia madre.
Le domande erano insistenti come le piogge monsoniche, ma a me non andava di sputare il rospo per far apparire il principe che tutti si aspettavano, un principe senza macchia e senza scarpette.
Gli altri non volevano capire, mentre io volevo solo fuggire lontano, leggero, sulle punte … Per molto tempo i miei sperarono che guarissi dal male oscuro e profondo che mi aveva colpito, un morbo con un nome di cinque lettere: DANZA.
Ma il contagio non si estingue facilmente, infatti quella malattia mi è entrata dentro l’anima e non ne uscirà. Non mi servono più lame per strapparla via, fa parte di me.
Solo, ho imparato a volteggiare leggero.
Solo, ho consumato pasti freddi dopo ore di allenamento.
Solo, ho spiccato il volo tra le ballerine di fila.
Ci vuole coraggio per abbracciare la solitudine.
Oggi mi guardo allo specchio: è Natale, sono ancora solo, ma sono felice.
Per me il nome “danza” è maschile singolare.