Trieste, 25.5.2071
Cara Sara,
ti scrivo questa lettera per farti percepire le mie emozioni quando ho aperto quel cassetto! Tra meno di un mese cambierò casa. Ho già acquistato il mio nuovo appartamento e ho messo in vendita quello dal quale ti scrivo. Sto liberando gli spazi in modo da tenere solamente le cose utili. Nell’armadio ho trovato un cassetto del quale non conoscevo il contenuto: ho fatto persino fatica ad aprirlo, tanto da pensare che fosse chiuso a chiave. In quell’istante ha fatto uno scatto: “tic”. Ho tirato la maniglia con forza e, finalmente, ho visto cosa c’era al suo interno. Oh Sara, è come se mi fossi catapultata in un’altra epoca, in un mondo parallelo. Non so se ti ricordi di una serie di episodi avvenuti circa cinquant’anni fa: eravamo ragazze. Avevamo tutte e due 13 anni. Quel giorno, con la scusa di dover studiare per gli imminenti esami, ci siamo incontrate proprio qui a casa mia, la casa che sto per vendere, nella quale lascerò pezzi della mia infanzia e adolescenza.
Ma torniamo a mezzo secolo fa. Era sempre venerdì, quel venerdì quello che ti sembrava insignificante. Cara mia, me lo ricordo come se fosse ieri: ci siamo avviate verso lo studio e abbiamo iniziato la nostra ricerca per l’esame. Dopo solo dieci minuti ci siamo stufate e abbiamo deciso di curiosare in giro tra i tanti oggetti che mio padre custodiva gelosamente all’interno di un grande armadio. Abbiamo aperto un’anta dopo l’altra, ma con scarsi risultati. Noi, però, non ci siamo arrese e abbiamo continuato a rovistare. Dopo altri dieci minuti di tentativi inutili, abbiamo aperto un cassetto: a prima vista sembrava un normale cassetto nel quale le vecchie, come me e come te, ripongono i loro rocchetti colorati, gli aghi e le loro preziosissime forbici da cucito. Proprio un paio di queste abbiamo trovato: i manici erano rossi, leggermente scrostati, le lame seghettate erano un po’ arrugginite. Nel complesso, però, restavano delle belle forbici. Dopo averle scrutate nei minimi dettagli, abbiamo deciso di esaminare i fili colorati: essendo nate negli anni Duemila, non eravamo ancora capaci di usare ago e filo correttamente.
Non abbiamo, ovviamente, dato retta al nostro grillo parlante che ci diceva di lasciar perdere e ci ricordava che quegli oggetti non ci appartenevano. Scacciata tale vocina dalla mente, abbiamo continuato a frugare tra le vecchie cose di mio padre. Così, sotto i rocchetti di filo, abbiamo trovato un foglio: la carta era ingiallita, l’inchiostro blu era slavato. Era una lettera. Recitava così:
“Caro Fabio,
come sai, partirò domani per il Canada. Ti lascio questa lettera e questi “armi” da cucito, in modo che tu possa ricordarti di me sempre e comunque, anche se non sarò più al tuo fianco. Ci piaceva giocare con i miei rocchettini colorati e con le mie forbici rosse. Insieme creavamo tanti personaggi che poi vestivamo con abitini fatti da noi. Spero che tu, come me, possa ricordare tutte le ore che abbiamo passato insieme, non solo noi due, ma noi due assieme alle nostre forbici rosse.
Con affetto, la tua cara nonna”.
Le parole toccanti della nonna di mio padre ci sono rimaste impresse.Siamo rimaste a fissare il cassetto come se fosse un oggetto con strani poteri magici. Guardandolo di nuovo, vedo davvero la presenza di qualcosa di magico. Quelle forbici, quei fili colorati e quella lettera ci avevano traghettate in un pianeta lontano. Spero di avere al più presto tue notizie.
Viola
Trieste, 30.5.2071
Cara Sara,
Non posso aspettare una tua, spero imminente, risposta, per raccontarti cosa ho appena scoperto. Dopo aver ritrovato quel meraviglioso cassetto, ho sentito mia figlia Rachele, che diceva di avere bisogno di un cappello per l’inverno.
Per farle una sorpresa, sono uscita ad acquistare la lana e l’uncinetto e mi sono messa subito al lavoro: volevo farle un cappello grigio e rosa, i suoi colori preferiti. Ho deciso di aiutarmi con ciò che la mia bisnonna aveva lasciato in dono a mio padre: le meravigliose forbici rosse e i fili colorati.
All’inizio sembrava perfetto: una larga banda orizzontale rosa cipria in basso che, salendo, si fondeva col grigio. Ero orgogliosa del lavoro fatto sino a quel momento. Mancava solo un dettaglio: un bellissimo pompon rosa. Era sera, però, e avevo lavorato tutto il pomeriggio alla mia nuova creazione per Rachele. Ho deciso così di realizzarlo la mattina seguente. Ho riposto il cappello quasi completo nel cassetto colorato, che ora sono io a custodire gelosamente, praticamente augurandogli la buona notte. Mio marito mi ha chiesto cosa avessi fatto tutto il pomeriggio, rintanata in camera. Gli ho risposto con un semplice: “Nulla, un segreto”. Mi ha guardato dubbioso, scuotendo la testa, ma ero troppo gelosa del mio cappello fatto con tanta cura e con quegli oggetti che, ormai, consideravo preziosi, da non voler raccontare a nessuno quello a cui stavo lavorando.
Sono andata a dormire serena, sapendo che l’indomani avrei fatto un fantastico pompon, per rendere il cappello stupendo il cappello di Rachele.
Al mattino un caffè per risvegliarmi e poi subito a terminare il lavoro. Dopo una velocissima doccia, sono tornata in camera, mi sono vestita di tutto punto cercando di non svegliare mio marito, che dormiva profondamente. Ancora contentissima della sorpresa che stavo preparando, ho raggiunto lo studio in punta di piedi con un largo sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Chiusa la porta dietro di me, ho acceso la luce. Forse è stata solo una mia impressione, ma potrei giurare di aver visto un lampo di luce balenare nella stanza. Go chiuso gli occhi e sono andata dritta all’armadio, ma ciò che ho visto quando l’ho riaperto è stato scioccante: il cappello rosa cipria si era rimpicciolito, era così piccolo che sarebbe entrato a … mia nipote! Non capivo com’era potuto accadere, il mio meraviglioso cappello era diventato minuscolo, tanto da non entrare né a me né a Rachele.
Non mi sono arresa e ho deciso di riprovarci: ho rifatto il cappello con altrettanta cura e altrettanto amore, anche se leggermente stupita di ciò che era successo. Verso mezzogiorno, ho terminato anche il secondo cappello, stanca e perplessa. A pranzo non ho toccato cibo: continuavo a domandarmi come fosse possibile. Nel pomeriggio ho schiacciato un pisolino e, di nuovo, quando mi sono svegliata anche il secondo cappello si era rimpicciolito. Mi ero stufata: non riuscivo a capacitarmi.
“Com’è potuto succedere?”, “È impossibile!”, “E adesso?”: sono solo tre delle mille vocine che avevo cappello rosa a mia figlia. Quando sono tornata a casa, ho deciso che la cosa migliore da fare era fare un largo sorriso e portare a Rachele e alle sue figlie i cappelli, sperando che quelli che avevo fatto non si fossero ristretti troppo per andare bene alle bambine. Ero delusa e ancora molto perplessa, ma ho deciso comunque di andare a fare visita a mia figlia, che viveva con suo marito e con le due figlie Emma, la più gande, ed Elena, la più piccola. Mi era venuto un presentimento, ma volevo essere sicura prima di spiattellarlo in giro.
Dopo mezz’ora di viaggio in macchina, io e mio marito siamo arrivati davanti alla villetta di nostra
figlia. Milly ci ha accolto scodinzolando, mi sono chinata ad accarezzarla. Nel giro di trenta secondi ho sentito una vocina indistinguibile gridare: “Nonnina!”. Era Elena. Ha compiuto da poco sei anni, ma parla come se ne avesse venti. Mi è corsa in braccio, seguita da Emma. Rachele e Marco sono rimasti sulla porta sorridendo a quelle piccole bimbe e ai loro vecchi nonni. Siamo entrati in casa seguiti da due felici bambine saltellanti. Emma deve compiere undici anni e mi ritrovo moltissimo in lei: mi assomiglia quando sorride e quando si arrabbia, per il resto è esattamente uguale a Rachele.
Mia figlia mi ha abbracciato e ha aiutato mio marito a portare le buste in cucina. Io, intanto, ho estratto con cura i due berrettini dalla borsa. Elena mi ha raggiunta entusiasta, sedendosi sul bracciolo della poltrona, seguita da Emma che si è seduta sul tappeto a gambe incrociate, in attesa. Ho appoggiato il cappello sulla testa di Elena che mi ha sorriso. Le stava perfettamente. “Mamma?! La nonna mi ha fatto un cappello che mi calza a pennello!”. Rachele è entrata in salotto e ha dato un bacio a sua figlia.
“Mamma – mi ha detto – le sta benissimo”. Per vedere se la mia ipotesi era corretta, ho messo l’altro anche a Emma. Sì, avevo ragione: stava anche a lei. “Wow, nonna! Grazie”. Emma mi ha dato un bacio sulla guancia e io le ho sorriso.
Dopo pranzo mi sono chiusa in bagno per riflettere: la nonna di mio padre usava le forbici per suo nipote, ovvero mio padre. Forse voleva dire quello, voleva dire che ora toccava a me, toccava a me insegnare tutto questo alle mie nipotine, toccava a me rendere possibile l’impossibile, toccava a me.
E adesso racconto a te questo piccolo, grande segreto di famiglia, in memoria della curiosità che quelle forbici avevano destato in noi, tanto tempo fa.
Spero di ricevere presto una tua risposta.
Mi manchi.
Viola
Trieste, 25.5.2141
Cara Caterina,
è passato tanto tempo da quando ti ho scritto l’ultima volta, ma voglio dirti cos’ho trovato a casa dei miei genitori in un cassetto che pensavo fosse chiuso a chiave.
Chiamami appena puoi devo raccontarti tutto … Con affetto.
Emma