SCHEGGE – racconto
Una scrittura matura, magistralmente rifinita che asseconda uno stile pertinente con la psicologia frammentata della protagonista. Una storia quanto mai attuale indagata con profondità, mistero e raffinata costruzione letteraria.(dal Verbale di Giuria)
SCHEGGE
di Georgeta Pojoga
ISIS Torricelli Maniago
La stanza era in penombra l’unica luce proveniva dalla grande finestra che dava sul giardino. Delle piccole lanterne riempivano il prato proiettando delle ombre sinistre sul cespuglio di rose accanto alla siepe che affiancava il recinto. La finestra era leggermente aperta e lasciava entrare il profumo intenso che si sente solo la notte, solo quando tutto è in silenzio e immobile. Ero in piedi, le braccia abbandonate lungo il corpo, lo sguardo perso nel vuoto. Non mi ricordavo come ero arrivata lì, né perché. Il peso che mi gravava sul petto inghiottiva l’aria, che si saziava del mio vuoto. Ma non capivo. Perché? Quella domanda muta urlava, urlava di dolore, di confusione, di perdita. Mi riscossi lentamente dal mio torpore freddo, e lasciai il mio sguardo cadere, precipitare e atterrare dolorosamente su un’altalena, in mezzo a quel prato.Fitta.
`Più in alto! Più in alto, mamma! ‘una voce dannatamente viva risuonava fra le foglie, fra i petali, fra gli steli d’erba.
Una distesa limpida, un cielo terso, i ricci castano scuro facevano a gara col vento mentre io continuavo a cullare il mio bambino nell’aria, cercando di farlo sentire parte di essa. Leggero come l’aria. Una lama affondò nella mia carne, nel mio sangue, nelle mie ossa. Mi tolse il respiro, il fiato, svuotò i miei polmoni, Non riuscivo più a sentire l’aria. Agonizzai nel silenzio, cercando di afferrare qualcosa che non si lasciava trattenere, non si lasciava respirare. Riportai lo sguardo sull’altalena con fatica, cercai di ricordarmi come ogni volta che lui tornava giù portasse con sé una folata d’aria. Cercai di riportare la mente lì di nuovo, per sentire il legno duro sotto le dita, un secondo, prima di spingerlo di nuovo in alto, cercai di ricordare il profumo che si portava dietro quella piccola folata d’aria. E i miei polmoni si riempirono di nuovo, si riempirono del suo profumo, abbastanza forte da poter essere reale. Da potermi uccidere lentamente, Chiusi gli occhi sentendo un orrendo nodo in gola.Fitta.
`lo non sono d’accordo con papà, io non accetterei degli animali imbalsamati come regalo.‘
Le mie ginocchia crollarono, scivolai a terra, lo sguardo fisso sulle pareti su cui erano appese delle teste impagliate.i guardavano, ridevano di me, si nutrivano della mia lama, godevano, riuscivo a percepire la loro soddisfazione, i loro piccoli occhietti di vetro scintillavano di malizia. Ma io non ero un trofeo, ero uno scarto. Un esemplare che non era riuscito a fare il suo lavoro, ma che aveva perso il suo piccolo. Uno scempio, una disgrazia.Questa volta la lama non arrivò, arrivò ben altro. Un urlo agghiacciante mi sfuggì dalle labbra, si impossessò del mio corpo. E urlai con quanto più fiato avevo, ma non per dolore, per la tristezza o per il tormento che consumava ogni tessuto della mia persona. Urlai per la morte. Urlai per quegli animali, urlai perché mi rispecchiavo in loro. In quel momento capii che erano una manifestazione di potenza e di fragilità. Ma non la potenza dell’uomo, ma quella della morte. La potenza della morte che ci annienta ancora prima di portarci via con lei e la nostra fragilità che ci caratterizza ognuno allo stesso modo. L’urlo cessò come era iniziato, mi lasciò stordita, ancora più vuota di quanto non fossi prima. Il mio respiro arrancava per cercare di alleviare un qualcosa, un qualcosa che mi risparmiasse per un paio di secondi. Le mie dita cercavano un appiglio, un appoggio, un rifugio. Ma trovarono solo buio. Fitta.
`Mamma, quando ero piccolo come mi hai insegnato a non avere paura del buio?’
Come? Cosa avevo fatto per tranquillizzarlo? Vuoto. Era il buio mi soffocava, si infilava nelle pieghe della mia maglia, mi entrava dentro, non vedevo nient’altro che nero. Nero. Il nero non è un colore. Io non ero un colore. Il nero è assenza di luce.La mia luce si era spenta quel pomeriggio.Cercai di alzarmi e con scarso equilibrio cercai a tentoni una parete. Le mie dita tastarono il vetro freddo, aprii gli occhi aspettandomi di vedere la finestra. Buio. Dovevo romperla. Dovevo fare entrare la luce. Diedi le spalle alla finestra, da qualche parte lì intorno c’era una sedia, ne ero sicura. Mi spostai verso sinistra sempre rimanendo attaccata alla parete, per paura di perdere quell’unico contatto. Allungai il piede verso il vuoto e toccai qualcosa. Mi sporsi in avanti e afferrai lo schienale della sedia, la sollevai di poco e la scaraventai contro la finestra. Si udì il vetro infrangersi e finalmente aprii gli occhi, la luce seppur fioca batteva sulle schegge di vetro a terra. Fissai quei bagliori come se non avessi visto altro nella mia vita. Mi presi la testa fra le mani e cominciai a piangere. Ero persa. Non riuscivo nemmeno a spiegare il mio dolore. Avvertii la luce cambiare, alzai di poco la testa. Una lama di luce stava avanzando sul pavimento fino a fermarsi alle mie spalle. Mi girai lentamente, il manico di un coltello da caccia scintillava a causa di quella luce aliena, estranea. Conoscevo quel coltello, il manico di legno liscio e lucido, con incisioni decorative, il suo preferito. Fitta.
`Perché non posso aiutarti?‘
-Perché è pericoloso, tu devi solo guardare- la voce gentile e pacata di mio marito mi fece sorridere.
La porta del suo vecchio studio era socchiusa, sbirciai dentro senza farmi vedere, era appartenuto a suo nonno, sulle pareti erano appese centinaia di lame di forbici leggermente deformate e decine di cavatappi non ultimati. Sapevo che il vecchio signore amava le deformità, le piccole particolarità che rendeva il coltello unico nel suo genere. Su uno sgabello basso era seduto mio marito, che stava finendo di affilare un coltello con l’ausilio di una mola, che produceva un rumore continuo che mi ronzava fastidiosamente in testa, il bambino si allungò lentamente verso il tavolo, cercando di non farsi notare, mentre l’uomo sì asciugava il sudore dalla fronte. Le sue dita afferrarono la lama di un coltellino da caccia, passò sopra la lama fredda e lucida i polpastrelli e io lo osservai attentamente, pronta a intervenire se fosse successo qualcosa. Con attenzione lo rimise sul tavolo e ne prese un altro questa volta più grande, esitai sull’orlo della porta mentre il rumore della mola aumentava. Il bambino stava accarezzando il manico del coltello, potevo intravedere delle incisioni e dei disegni colorati. Sorrise e impugnò con forza il coltello facendo un segno profondo sul tavolo, lo riprese fra le dita e prima che potesse evitarlo si fece un piccolo taglio, lasciò cadere il coltello sul pavimento di cemento. L’uomo si girò di scatto, spense la mola che si fermò lentamente facendo calare il silenzio e corse verso il bambino.
-Cosa ti avevo detto?!- esclamò guardando il piccolo taglietto sull’indice.
Il bambino non disse nulla.
-Cosa non devono fare i coltelli?- chiese con più gentilezza l’uomo.
-Prendere il nostro sangue- borbottò corrucciato il bambino.
Ma c’era qualcosa di diverso nel coltello per terra.
Soffocai un grido. Sangue.
Tracce sfuocate sul pavimento.
Sangue. Sulle mie mani. Il mio sangue. No.
Sangue del mio sangue.
“Mamma, perché mi hai ucciso ?”.
Mi voltai di scatto urlando.
Di fronte a me c’era mio figlio.
Il mio bellissimo bambino.
I riccioli erano mossi da una leggera brezza.
” Perché ?”
Chiusi gli occhi e urlai.
Urlai frasi senza sentirle.
Li riaprii di scatto e mi infilai le mani fra i capelli aggrappandomi ad essi, cercando di uscire. Volevo uscire.
Lasciatemi uscire.
-Tu eri troppo, tutto questo era troppo per me- le mie labbra si schiusero appena, dando voce ai miei demoni.
A quelli che consumavano la mia carne, le mie ossa, il mio sangue.
A quelli che consumavano il mio sonno, la mia voce, i miei sospiri.
Le mie forze svanirono, mi abbandonai per terra senza più provare nulla.
Non ero una donna, non ero un animale.
Ero un involucro senza vita.