LACRIME DI UN ASSASSINO – racconto
Due racconti paralleli che intrecciano le loro sorti solo nel tragico epilogo. La storia di un bambino e di un ragazzo accomunati dall’esperienza orrifica di una guerra per quanto vissuta con presupposti e schieramenti opposti. Un tema affrontato con crudo verismo in un ottimo intreccio di narrazioni che spesso confonde, omologandoli gradualmente, i sentimenti dei protagonisti fino al fatale equivoco finale. (dal Verbale di Giuria)
LACRIME DI UN ASSASSINO
di Muhamad Konate
Liceo Artistico Fabiani Gorizia
Spesso si utilizza superficialmente il concetto di morte: “sono morto di paura”, “sto morendo di sonno”, ma nessuno comprende cosa significhi morire finché non avviene. Quando mi arruolai non pensavo che sarei morto, o almeno non in modo così doloroso. A 22 anni decisi di entrare nell’esercito per fuggire dalla mia situazione familiare, vivevo con due genitori che non si parlavano da quando mio padre, ubriaco, aveva cercato di uccidere mia madre con un coltellino svizzero. Ancora non avevo capito perché lei non avesse chiesto il divorzio.Per mantenermi lavoravo come barista, occupazione che non mi soddisfaceva sebbene fosse più facile rimorchiare. Non avrei potuto continuare così per tutta la vita. Non pensavo che un giorno avrei potuto uccidere un uomo. Non è un peso semplice da portare a soli 12 anni. Il coltello, l’unica arma che mi avevano dato per difendermi, era rimasto lì, nel petto di quel ‘uomo. Non dimenticherò mai il modo in cui mi guardò, occhi sbarrati, che non comunicavano odio, ma solo pietà e compassione. Gli stessi occhi con cui mi aveva guardato mio padre prima che i miei rapitori gli staccassero la testa con un grande coltello da cucina. Quel giorno stesso, dopo essersi liberati di tutti gli uomini del villaggio in cui vivevo, presero me, mia madre e le mie quattro sorelle e ci portarono in un campo dove c ‘erano un’ infinità di donne e bambini. C’erano anche degli uomini, ma questi erano ai vertici dell’organizzazione che poi ci avrebbe sfruttato. Ci divisero subito, mia madre mi disse che sarebbe andato tutto bene. Da quel giorno non l’ho più vista. Mi stiparono insieme ad altri ragazzi, maschi. Alle femmine era riservato un altro trattamento. Una volta arrivato al campo militare, non pensavo che avrei rimpianto il silenzio della casa dei miei. Avevo decisamente sottovalutato le difficoltà che avrei potuto incontrare. Il generale ce l’aveva con me: approfittava di ogni situazione per riprendermi, urlando il mio cognome molto lentamente, come se fossi stato stupido e non avessi potuto capire che stava chiamando me. Instaurai un particolare legame con un mio coetaneo, al quale mancava un dito a causa di un incidente con un petardo. Quando mi dissero che avrei raggiunto il campo in Africa ne fui sollevato, finalmente mi sarei liberato del generale, che approfittò di quegli ultimi giorni per rendermi la vita un inferno, con pulizia di latrine, bucato ed esercizi fisici in più. Ma non sapevo che avrei trovato il vero inferno una volta arrivato in Africa. Non fu difficile ambientarmi nel campo. I rapitori non ci davano molto da mangiare, ancor meno di quanto eravamo abituati nei nostri villaggi. Però davano più cibo a noi maschi che alle femmine. Noi gli servivamo vivi. Eravamo le loro armi, i loro scudi umani, le esche che utilizzavano per scoprire eventuali mine o nemici. Eravamo degli oggetti nelle loro mani. Durante il giorno ci insegnavano a usare le armi e non esitavano a picchiarci e a frustarci. Volevano dimostrarci che non avrebbero esitato ad usare la violenza qualsiasi cosa avessimo fatto. La sera tornavamo in quella che loro chiamavano “casa”, ma per noi non poteva essere tale. La casa è un luogo dove si sta bene, non dove si continua a vedere la morte per malattia e disperazione. Quella zona dell’Africa dove si trovava il campo era un luogo di morte e crudeltà, dove si uccidevano tutti. Non si faceva alcuna differenza tra i sessi e le età. I miei compagni sparavano a sangue freddo a chiunque si ritrovassero davanti. Il compito di un militare non doveva essere quello di proteggere le persone? Perché allora avevano il coraggio di uccidere dei bambini? Era forse quella la guerra?Forse arruolarmi non era stata la scelta giusta, ma era troppo tardi per ripensarci, dovevo solo pensare a rimanere vivo. Raramente ci capitava di incontrare grandi gruppi di nemici, al massimo due o tre persone che venivano uccise ancor prima di sapere se potevano crearci problemi. Inoltre molti di questi erano bambini, mandati probabilmente in avanscoperta o per disfarsene, siccome avevano sempre nuove facce fresche di rapimento. Speravo di non incontrare mai uno di loro armato, perché avrei dovuto decidere se salvarmi la vita uccidendolo o se salvarla a lui facendomi, probabilmente, uccidere.
Odore di carne putrefatta e nauseante, che ti entra dalle narici e ti arriva fino al cervello. Costretto a quel terribile odore perché avevo provato a scappare da quel luogo di morte. Questa era una delle punizioni che infliggevano a chi infrangeva le regole. Venivamo chiusi in una fossa insieme ai colpi delle persone uccise dai nostri aguzzini. Se eravamo fortunati ci tenevano in quel luogo per qualche ora, ma avevano il coraggio di non farci uscire anche per giorni, senza cibo né acqua.
Quando vidi le facce sconvolte e i corpi nudi delle mie defunte sorelle, accatastati a tutti gli altri cadaveri, capii che non volevo, non potevo fare la loro stessa fine. Ero arrabbiato, furioso e disperato, ma non potevo ribellarmi. Dopotutto cosa poteva fare un bambino di 12 anni contro centinaia di uomini?Il giorno in cui venni ucciso, non fui l’unico a morire. Il mio ormai più caro amico, quello che aveva perso il dito, era stato ucciso da uno di quei bambini soggiogati dalla droga. Assistetti impotente alla sua morte. Forse avrei potuto salvarlo, ma non avevo il coraggio di picchiare, di uccidere un bambino che oltretutto non aveva nessuna colpa. Nonostante la sua morte non potevo abbattermi, un militare non si poteva lasciar condizionare dalla morte. Entrai in una foresta dove sapevo che erano stati avvistati dei bambini. Il mio intento era quello di riuscire a salvarne almeno uno. Salvarlo dalla persone che l’avevano rapito e dai miei compagni che non avrebbero esitato a sparargli. Vagai per ore nella foresta e l’unica cosa che trovai furono insetti e altri piccoli animali. Stavo per arrendermi quando da un folto cespuglio uscì un bambino dallo sguardo spaventato e dal respiro affannato. Aveva i vestiti strappati e in mano aveva un oggetto appuntito che rifletteva la luce della luna. Un coltello. Cercai di tranquillizzarlo, ma non conoscevo la sua lingua. Non ebbi il tempo di capire il motivo per cui stesse puntando il coltello verso di me che già mi aveva pugnalato al petto. Caddi a terra. L’ultima cosa che vidi fu il bambino che correva lontano da me. Non volevo che finisse così, volevo salvarlo, aiutarlo, e ora gli avevo solo dato un peso in più col quale convivere. Era finita. Ero morto.
Quando mi diedero il coltello che avrebbe dovuto aiutarmi a difendermi fuori dalla base, oltre al ricordo della morte di mio padre, mi venne in mente il coltello che mia madre utilizzava per cucinare i suoi piatti prelibati. In parte quel coltello mi rievocava dei bei ricordi. Avevo il sospetto che i miei rapitori mi volessero morto. Perché mandare un soldato in m’imposto senza un arma da fuoco? Se lo volevano davvero, questa era la mia occasione per fuggire. Appena mi fecero uscire dal campo, fuggii il più lontano possibile e mi addentrai nella foresta dove solitamente ci mandavano ad allenarci. Probabilmente se non fossi tornato al campo non sarebbero venuti a cercarmi, ma se l’avessero fatto, probabilmente non avrebbero setacciato la foresta. Stare in quel luogo durante il giorno non mi preoccupava, ma quando arrivò la notte, cominciarono i problemi. Avevo paura, i versi degli animali notturni mi spaventavano. Cominciai a correre. Non conoscevo la mia meta, ma sapevo di dover mettere più distanza possibile tra me ed il campo. Continuai la mia fuga fino a quando davanti a me non trovai un uomo in divisa. Un soldato.
Iniziò a farfugliare verso di me. L ‘adrenalina mi cresceva dentro, poteva uccidermi da un momento all ‘altro, e, visto che finalmente ero riuscito a fuggire, non volevo morire per mano sua. Afferrai saldamente il mio coltello e corsi verso il soldato ad occhi chiusi e lo colpii senza pensarci due volte. E ora, mi trovavo appoggiato ad un albero, dopo essere fuggito dal cadavere di quel’ uomo. Tormentato dal senso di colpa e in lacrime. Ero un assassino.