Lo stile, decisamente sicuro e molto originale, maturo nella scelta lessicale e nell’articolazione sintattica, sorregge con grande efficacia la descrizione di una donna, del peso della sua vita. Il tema della condizione femminile quale si presenta in certi contesti sociali è tratteggiato con precisione e grande sensibilità, i pensieri della protagonista sono riportati in modo molto credibile e maturo. La mescolanza di realtà e immaginazione, il coraggio nell’affrontare tematiche complesse, senza conclusioni facili, drammatiche o consolatorie, rendono ulteriormente stimolante e ricca la trama del testo che la Commissione ha giudicato meritevole del primo premio. (Motivazione del premio)
CHE RAZZA D’UOMO
di Giovanni Verdoliva
Istituto di Istruzione Superiore Torricelli – Maniago
C’è ancora il tacchino da cuocere. Ostento un’innaturale eccitazione, al pensiero di essere meno sola di quanto mi senta, e che, giusto al di fuori della “nostra” cucina, c’è il rilassante tran tran routiniero di persone che marciano come automi. Centinaia? Migliaia? Non so, o meglio, non ricordo, quante persone circolino sul marciapiede, a quest’ora, sei piani più in basso. A me, donna, il privilegio di uscire a qualsiasi ora io voglia, per fare qualsiasi commissione io voglia, con qualsiasi persona io voglia, è negato. Mi sembra di sentire l’estraneo che ascolta questi pensieri per la prima volta. No, non è il Medioevo.
É il ventunesimo secolo.
Do una rapida occhiata all’orologio, pensando a quanto avanti siamo arrivati e a quanto indietro io sia rimasta. Perché ho comprato quest’orologio, questa cosa orribile e sadica, con una parrucca in plastica nera che risalta le lancette scheletriche che si muovono con pigrizia su quel praticello pallido? Le dodici e ventisette. Le dodici e ventisette. Le dodici e ventisette. Tic. Tac. Tic. Tac. Passeranno mai queste ore? Mi consolo rendendomi conto che, tuttavia, sono sopravvissuta già a tre anni, formati da parecchi mesi, formati da molti giorni, formati a loro volta da infinite ore. Vivo qui, assieme a lui. Non voglio pensare al suo nome – gli darebbe più importanza di quella che meriti (nessuna) – e non me la sento di pensare al mio: sono certa che il solo considerarmi un suo pari lo manderebbe su tutte le furie. Una di queste furie, in particolare, continua a ricordarmi della sua presenza proprio qui, sulle costole, nel lato sinistro. “Ne risento ancora lungo tutta la nervatura delle mie costole e sempre ne risentirò, fino al termine dei miei giorni”. Così parla la Comare di Bath del suo quinto marito, nei Racconti di Canterbury. Perché io, a differenza di qualcuno, una cultura ce l’ho. Mi ero curata di procurarmene una quando potevo ancora prendermi il lusso di volermi bene, e quando potevo permettermi di immaginare una vita passata a leggere. E adesso, invece, vivo una vita composta da incarichi quali pulire, cucinare, fare la spesa (ma solo con delega concessa, controvoglia, da lui), farmi bella e fingermi inebriata dal contatto del suo corpo contro il mio, in qualsiasi momento della giornata.
Che spasso!
Torno in me e mi scopro con una mano sul fianco e l’altra sul petto, mentre fisso il tagliere. Prezzemolo. Devo prendere il prezzemolo e tritarlo. Mi avvicino alla finestra della cucina aggiustando le spalline della canottiera, e una volta aperta la finestra, vengo estasiata dall’odore della salsedine. Sembra tutto così artificiale (non parlo solo della mia vita): non riesco nemmeno a capire se siano le foglie verdi del viale alberato ad essere fuori luogo rispetto all’immondizia che prolifera sui marciapiedi, o se i veri elementi della natura siano le buste di plastica e i mozziconi di sigaretta. Allontano questi pensieri e mi concedo qualche secondo di sollievo, appoggiandomi sui gomiti e chiudendo gli occhi. I clacson, i motori e il brusio perenne coprono con prepotenza il dolce suono delle onde (la spiaggia è vicinissima). Piego la testa di lato, lasciando che la mia guancia destra crogioli al sole. Quando inizio a sentirmi avvampare, riapro gli occhi e vedo – come se fosse la prima volta – le ortensie blu che sporgono dal vaso arancione sul davanzale della mia (no, della “nostra”) vicina di casa, un’anziana signora che non ho mai visto con altro indosso se non vestaglie floreali. É affacciata anche lei, e credo che, dietro le lenti graduate, abbia gli occhi chiusi. Sta fumando, e come se sapesse già che la stavo guardando, apre gli occhi e mi fissa. Non so nulla di lei. Non so nulla delle altre persone che vivono nel palazzo. Lui non vuole che io parli con la gente, soprattutto con altri uomini. Noi donne non siamo – questo è ciò che pensa lui nelle profondità del suo cervello – degli esseri dotati di intelletto e capaci di prendere decisioni. La carriera? Roba da uomini: il nostro compito è quello di supportare i nostri eroi con manicaretti impeccabili e massaggi alle spalle, consolandoli mentre frignano, lamentandosi di quanto sia stressante il loro lavoro. Povero Atlante, che fardello pesante è il mondo, eh? Nel chiassoso silenzio della città, la vedo allungare un braccio verso di me. Percorro con gli occhi il suo arto: la spalla curva, l’avambraccio flaccido, le mani macchiate e venose, e il pacchetto aperto che tiene stretto nella mano.
«Vuoi una sigaretta?» Chiede. Non so cosa dire.
«No, la ringrazio». Vorrei sembrare cortese, ma mi rendo conto di sembrare intimorita. La verità è che fumerei volentieri, ma non ho intenzione di essere presa a calci. Se scoprisse che ho fumato, sarebbe la fine (o meglio, l’inizio di un’altra fine). Lei spegne la sigaretta nel vaso delle ortensie – che blu, che belle! – e torna dentro. Strappo un ciuffo di prezzemolo – penso basti – ed entro chiudendo la finestra, e il caos della città sembra quasi scomparso, dietro il vetro. Torno al bancone, pronta a ultimare il tacchino coi funghi. Sfodero il coltello dal ceppo e inizio a tritare il prezzemolo. Certe volte, mentre faccio le cose più ordinarie che una donna possa fare, come cucinare o pulire, mi piace pensare a ciò che avrei potuto offrire al mondo. Mi sento così oppressa. Alterno svariate opinioni di me sessa: sono stata stupida ad aver sposato un uomo che mi maltratta; allo stesso tempo, sono stata stupida perché non ho reagito (chi mi assicura che le sue minacce non diventino realtà?). La lama si alza e si abbassa quasi impercettibilmente, come in un qualche cerimoniale tribale in cui mi è stato dato l’onorevole incarico di suonare il tamburo. Zac zac zac. La verità è che, quando mi corteggiava, non mi ero resa conto del suo ego. Io amo – amavo – essere circondata da persone capaci di farti sentire importante, nel piccolo della vita monotona delle persone comuni. Zac zac zac. Di quelle persone che hanno letto i grandi autori, e visto i grandi capolavori del cinema, ma che tuttavia non si curano di loro, poiché spinti dalla loro stessa originale esaltazione, a differenza di quella di lui, spinto solo dal suo mastodontico io. Zac zac zac. La sua vicinanza mi rimpicciolisce, mi calpesta, ed è così convincente che potrebbe dirmi che sono una nullità una sola volta, e io lo crederei per sempre. Zac zac zac. Ero così innamorata (chiunque l’avrebbe notato), che non mi sono resa conto di essermi sottomessa volontariamente. I pugni, gli schiaffi, i lividi, quelli sono arrivati più tardi, troppo tardi. Che stupida sono stata, buon Dio… diceva di amarmi. Che razza d’uomo ama così?
Spengo il fornello sul quale lo spezzatino si sta insaporendo, e mentre rovescio in modo grossolano il prezzemolo tritato nella pentola, sento la porta di casa aprirsi. So già cosa farà: lascerà la ventiquattrore a terra, chiuderà la porta e andrà in bagno. Se sarò fortunata (lo sono mai?) chiuderà la porta del bagno. Se sarò ancor più fortunata, tirerà lo sciacquone. Lo sento entrare in cucina.
«Ho una fame». Si avvicina e mi vengono i brividi. «Cosa prepari?»
«Spezzatino di tacchino, con i funghi. So che ti piace». Lo disprezzo con tutta me stessa. Mentre distribuisco lo spezzatino nei piatti, mi tocca un’anca e appoggia il mento sulla mia spalla. La barba inizia ad essere ispida e fastidiosa, come lui.
«E mi piacerebbe fare altro, dopo pranzo. Ho voglia».
Tutto d’un tratto, sento un brivido gelido nelle mani, nei piedi, nelle pieghe delle palpebre. Mi percuote il cranio, mi dissesta la spina dorsale e mi scrolla le costole. Lui è immobile, e io lo fisso, con una mano penzoloni (non l’avverto più, mi ha lasciata), e l’altra sul bancone. La mandibola trema, e afferro il coltello, la cui lama porta ancora tracce minuscole di prezzemolo. Lo colpisco rapidamente al collo. Flot. Lo colpisco ancora. Flot. Lo pugnalo nel petto. Flot. Gli colpisco il cuore. Flot. Quando il coltello cade, lo fisso ancora. É in piedi, fermo. Odio la sua apatia. É immune anche al morso freddo e purpureo della lama. Deve sempre averla vinta…
«Ti ho detto che ho fame. Ti muovi?» Sono nella stessa posizione in cui ero prima che sognassi ad occhi aperti quello che desidero fare più d’ogni altra cosa. Deglutisco e sento la stessa sensazione che si proverebbe se si potesse ingoiare un elefante. Porto i piatti a tavola, tremante «Vado… un attimo in bagno. Torno subito».
Mi allontano, rapida come un’amazzone. Chiudo la porta alle spalle, ignorando il suo brontolare sul quanto lo faccia imbestialire il dovermi aspettare. Abbasso la tavoletta con mani incerte, e mi siedo sulla tazza. Non uscirò mai più da qui. Mi godo il miraggio del suo cadavere, mentre la signora dell’appartamento accanto accenderà una sigaretta. Siamo dannate, tutte noi. O solo io? Per quest’attimo, quest’attimo solo, io sono libera. Vattene, paura, va’ a cercare cibo altrove. Stacca le tue zanne dalla mia carne, e pugnala la sua. Mi prendo la testa tra le mani. Singhiozzo, singhiozzo.
Giovanni Verdoliva
vincitore del Premio Lama e Trama Giovani