Il racconto, condotto con uno stile asciutto e personale, con soluzioni formali e lessicali notevoli, mantiene un ritmo incalzante che conduce inesorabile ad un finale drammatico. Le ansie e le paure di un adolescente, i drammi familiari, gli ambienti della scuola e della società sono descritti con precisione e sensibilità. La scelta della prima persona nella narrazione rende la storia narrata ancora più intensa e dolorosa. Per questi motivi il racconto è valutato meritevole del secondo premio. (Motivazione del premio)
ALLO SPECCHIO
Di Caterina Lavagnini
Liceo Classico Carducci/Dante – Trieste
IV A / ginnasio
E le lacrime seguono il lungo profilo delle guance, scavate
dalla sofferenza, dalle ingiustizie. Allo specchio vedo un viso
segnato dalla crudeltà della vita, dall’abbandono. Un volto
consumato, spogliato della giovinezza, spogliato della gioia
di vivere. La bocca serrata nella smorfia di un dolore che
attanaglia il cuore in una stretta soffocante. Abbandonate a
se stesse, le onde brune si scuotono disordinate e le mani si
uniscono in preghiera e supplicano, supplicano di non dover
più sopportare, di non dover più fingere. Gli occhi opachi si
riflettono nel metallo lucente: sono grigi e inespressivi, quasi
fossero disegnati su questo volto straziato. Il giallo delle
piastrelle diventa luminoso, acceso, abbagliante; le mani si
stringono a pugno. La lama proietta la luce ancora e ancora.
Le piastrelle diventano migliaia, come le insicurezze di una
quattordicenne.
Lancio il coltellino nella vasca, con la testa che scoppia e
torna l’ombra. “Non sono pronta”. Spalanco la porta e mi
rifugio nel letto ad assemblare le schegge di una vita
infranta.
E le ore continuano il loro ciclo inesorabile, senza sentire
ragioni, senza sentire dolore, senza sentire preghiere. E dal
buio diventa giorno: la sveglia, la colazione, il silenzio, il
ticchettio assordante del tempo, i vestiti, uno sguardo a
papà sul divano e le chiavi.
La scuola, le urla, i bulli, le macchinette, il preside, ancora
poche ore, il sonno, la matematica, la morsa alle tempie, il
dolore, i bulli, la disperazione, la campanella.
Conto i passi rapidi e strascicati, fingendo di ignorare le
risate, gli insulti, ma non si può ignorare il cuore che sbatte
dentro al petto.
Provo a ignorare le spinte, gli scherzi, ma non si può
ignorare il sapore amaro delle lacrime che si ingoiano ogni
santissimo giorno.
Provo a ignorare il sangue, le risate, la strada, ma non si
può ignorare il vuoto dentro di sé.
II portone di casa diventa consolazione, ma anche filtro
attraverso cui tutto è ricordo. E così le risate diventano
sussurri e le spinte diventano lividi, ma il vuoto rimane.
Mi raggomitolo sul primo gradino delle scale ad ascoltare il
ritmo del cuore, che non mi abbandona. L’inesorabile
battere potrebbe lasciarmi in pace, invece continua
imperterrito, nonostante le preghiere, nonostante le
suppliche, nonostante sia proprio io a chiederlo, nonostante
sia già morta dentro.
Batte ostinatamente. Batte.
Raccolgo i pensieri e scalo gli ultimi gradini. Il suono acuto
della serratura che scatta ferisce il silenzio. Cammino e non
vorrei guardare, cammino e non voglio crederci, cammino e
vorrei essere insensibile, annegando nel dolore lungo una
vita. E invece mi fermo davanti alla porta del soggiorno.
Papà è ancora disteso tra le bottiglie, con la pelle sgualcita
e il sonno pesante, l’alito acre e i capelli incollati alla
guancia. Non posso guardare ancora, non devo guardare
ancora: non provo più rabbia, ma vergogna, no, malinconia.
“Sei Barbara? Sei tornata da me?” sussurra lui, gli occhi
serrati e un filo tangibile di speranza nella voce. La verità è
dura da digerire anche per un ubriaco, che beve per
dimenticare una realtà troppo difficile da affrontare.
Scavalco le lattine, le bottiglie, le casse, vuote, anzi piene di
rassegnazione. Entro in bagno e lo specchio mi rimanda
quel viso sconosciuto, sospeso tra vita e morte, tra bambina
e donna, tra mamma e papà. Gli occhi scavati, i capelli
sparpagliati, il dolore sulla pelle.
Infilo le dita tra le ciocche e tiro leggermente le punte: una
piccola fitta mi trapassa il cuore.
Tiro più forte, ma è ancora troppo poco, strappo quei ciuffi di
anatroccolo e le lacrime cominciano a scendere, ma è
ancora troppo poco.
Pianto le unghie nella carne, ma è ancora,troppo poco.
Mi cerco intorno affamata di dolore, affamata di morte.
Noto un dettaglio luminoso nella vasca, un luccichio, mi
infilo dentro e trovo il bagliore della lama. Non provo più
euforia, ma affanno. Ammiro il coltellino rubato a papà
qualche giorno fa. È appuntito e leggermente seghettato ai
bordi. Lo usava per aprire le lettere. Lui non ha mai cercato
di aprire il suo cuore, di aprirsi a sua moglie o a me. Prendo
la lama e, tremando, avvicino il polso sinistro, sollevo la
manica.
“Per te, mamma, che mi hai donato la vita e poi mi hai lasciata”. E incido. Il senso di liberazione sovrasta il dolore.
“Per te, papà, che non hai saputo superare l’abbandono”. E incido. Volano pensieri di carta.
“Per te, vita, che non mi hai saputo amare”. E incido.