di Letizia Borghese
I.C. “D. M. TUROLDO” – Montereale Valcellina (PN)
Il cassetto si aprì. Le nodose mani di Adele ci si tuffarono dentro e dopo aver perlustrato ogni centimetro di quel buco, uscirono reggendo un paio di forbici da sarta. La luce del sole filtrava attraverso le candide tende riflettendosi sulla lama delle forbici. Quelle forbici erano un po’ rovinate, la lama era leggermente arrugginita e non tagliava più come una volta. La donna si voltò a guardare fuori dalla finestra, i suoi occhi verdi seguirono il volo di due passeri. Su e giù, destra e sinistra, una veloce e impetuosa danza che necessita di due corpi leggeri, come quei passeri. Adele sospirò e tornò a pensare alle sue forbici. Sfiorò la lama con le dita, percorse l’impugnatura, se le rigirò tra le mani stando attenta a non rovinarle. Le guardò ancora un attimo prima di posare il suo sguardo su una vecchia foto. Abbozzò un sorriso. Nella foto datata 1952 c’erano lei e un ragazzo che sorridevano. “Com’erano belli quei tempi…” pensò la vecchia con nostalgia rivolgendo di nuovo il suo sguardo ai due passeri che ora si erano appollaiati su un ramo. Da lì, Adele incominciò a ricordare: il ragazzo, le forbici, l’America. Si ricordava ancora tutto.
Una normalissima giornata di primavera, gli uccelli cantavano, il sole splendeva. Adele stava camminando sul marciapiede quando involontariamente un ragazzo la urtò facendola cadere a terra. – Scusami – disse il ragazzo mentre la aiutava ad alzarsi. Adele fu subito catturata dai suoi occhi: erano scuri, quasi neri, profondi ed enigmatici. La scrutavano velocemente, un po’ intimoriti. -Scusa, è che non ti avevo vista…-continuò. In realtà l’aveva vista eccome, era rimasto catturato dalla leggerezza con cui si muoveva, quasi come una gazzella: veloce, con agilità ma comunque senza sembrare goffa. Aveva continuato a guardarla camminare senza accorgersi che in realtà stava venendo verso di lui. La ragazza lo guardò con aria disinvolta e mormorò qualcosa di simile a un ‘non importa’. Osservò ancora un attimo il ragazzo, era alto e slanciato, i capelli erano scuri e impiastricciati con la brillantina. L’uomo si sistemò le maniche della giacca e un po’ impacciato le disse -Io sono Fabrizio Radaelli, con chi ho avuto piacere di scontrarmi?- dopo questo una risatina soffocata. Adele lo guardò ancora un attimo prima di tendere la mano e ricambiare la stretta presentandosi -Adele Taiocchi, è un piacere conoscerti!-. Rimasero a guardarsi per un minuto; lui continuava ostinatamente a scrutarla, i suoi occhi si posarono più volte sulle sue mani, piccole e affusolate, come se fossero state fatte apposta per essere toccate e accarezzate. Lei, invece, continuava a guardare i suoi occhi scuri, più scuri dei chicchi di caffè, come solo la notte poteva essere. Fabrizio, finalmente, riaprì bocca e con la voce un po’ roca chiese -Mi vuoi concedere il privilegio di bere un caffè con me?- ; Adele annuì e disse: -Lo farei volentieri ma il locale è dall’alto lato della città e ci metterei troppo tempo per arrivare lì. Mi dispiace ma devo correre a casa.- Il ragazzo le sorrise e con tranquillità le indicò una Fiat 500 dall’altro lato della strada. La carrozzeria rossa risplendeva sotto il sole primaverile e stupita lei esclamò -Hai un’auto!?-. Fabrizio la guardò paziente e sorridendo annuì. I due ragazzi si diressero verso l’auto e salirono. La ragazza continuava a sorridere mentre guardava fuori dal finestrino anche se però a volte il suo occhio si posava su Fabrizio. Questa volta, però, guardava le mani, guardava il modo in cui stringevano il volante. Le dita erano lunghe e cingevano con forza il volante mentre i suoi occhi osservavano la strada, attenti che non ci fosse niente di mezzo. La caffetteria si presentava come un edificio nuovo rispetto agli altri che lo circondavano, i muri erano dipinti di giallo miele, mentre gli infissi erano in rovere. Fuori campeggiavano qualche tavolino e qualche sedia, anch’esse in rovere. L’interno, come anche l’esterno, era color miele, le sedie e i tavoli erano distribuiti male e dietro un bancone sostava un uomo in attesa che i due si sedessero. Quando si furono seduti lui si fiondò da loro. Era un uomo sulla cinquantina, i capelli erano brizzolati; guardava i due ragazzi con occhi vivaci che saltavano di qua e di là, impazienti di ricevere un’ordinazione. -Due espressi, per favore.- L’uomo sorrise soddisfatto, segnò l’ordinazione su un blocchetto e andò a preparare i caffè. -Allora, raccontami un po’ di te, hai qualche passione?- chiese Fabrizio. Adele esitò, si guardò le mani, il dito medio aveva un callo, probabilmente dovuto al modo in cui teneva le forbici quando cuciva; lo guardò in faccia e rispose -Mi piace cucire, anche se comunque non posso fare molto, in fondo i soldi non crescono mica sugli alberi!-. Scoppiarono in una fragorosa risata e proprio in quel momento arrivò il caffè. La ragazza guardò il caffè, guardò bene il suo colore, marrone. No, gli occhi di quel ragazzo non potevano essere color caffè, potevano essere solo neri. Annusò il caffè prima di berne un sorso; era amaro, quell’amaro che non riesci più a levarlo dalla bocca, quell’amaro buono, ricco di sfumature. Fabrizio andò avanti -Io, invece, ho la passione per i coltelli. Non fraintendermi, mi riferisco al manico, adoro quei coltelli che hanno un manico molto lavorato. Mi sono trasferito qui da poco e vorrei che tu mi illustrassi un po’ questo paese, cose tipo ‘Di là c’è il fornaio e, invece, lì c’è la macelleria’-. Adele rispose con entusiasmo, e dopo aver appoggiato la tazzina aggiunse -Lo farò ma non oggi. Ora devo andare a casa.-, lui guardò fuori dalla finestra e poi disse -Ti accompagno io, sali in macchina arrivo subito!- . Trangugiò velocemente il caffè e lasciò sul tavolo i soldi per pagarlo. La seguì fuori dalla porta, come un cane seguirebbe una bistecca, correndole dietro finché non si stanca. Guidò fino a casa sua seguendo le sue indicazioni, la lasciò fuori dal cancello e le disse -Piacere di averti conosciuto, non preoccuparti se domani sono ancora qua, ma ne vale la pena…-,le fece l’occhiolino e se ne andò.
Nacque una buona amicizia, continuarono a vedersi per tutta l’estate, anche per quasi tutto l’inverno, ma poi furono divisi.
Una serata ventilata di febbraio, più precisamente del dieci febbraio. Fabrizio e Adele erano seduti uno affianco all’altra su una panchina, di fronte a loro solo qualche albero e l’oscurità. Il fumo usciva dalle loro bocche mentre rimiravano tremanti il cielo incredibilmente stellato di quella sera; la luna alta nel cielo, illuminava i loro volti. -Credo di essere stato fortunato a scontrarmi con te quel giorno, sei la persona più bella che io conosco, e non solo dentro, tu sei una persona bella anche fuori!- disse lui. Lei arrossì, lui le guardò gli occhi verdi che alla luce della luna sembravano un’oasi nel deserto, le sfiorò le dita delle mani. Quelle mani, che l’avevano colpito così tanto, non aveva ancora avuto il privilegio di toccarle, solo sfiorarle, però, lo rendeva altrettanto felice. Quella sera, si decise, prese le sue mani, le strinse con le sue e la baciò. Adele rimase pietrificata, anche se solo per un momento, prima di “sciogliersi”. Quando il bacio finì, lui le porse una scatolina e le preannunciò -Forse non è molto, ma voglio regalartelo perché, perché…hem…voglio che questo sia un promemoria per te, un promemoria che ti dica ‘Io sarò con te in qualsiasi situazione’. Aprilo, su, forza!-. Adele prese la scatolina tra le mani e con delicatezza la aprì. Dentro quella scatola c’erano delle forbici da sarta molto belle. Se le rigirò tra le mani prima di dire entusiasta -Ma dove le hai prese?! Sono fantastiche, mi servivano proprio! E comunque grazie per il pensiero in sé stesso, mi piacerebbe avere qualcuno accanto in ogni situazione. A proposito di situazioni.- Il sorriso di Fabrizio si trasformò in un’espressione seria, la fronte corrucciata come ad incitarla ad andare avanti con la spiegazione. -Domani parto per l’America. So che è un brutto colpo, ma era tutto già programmato. Mio padre, io, mia madre, mia sorella e mio fratello, tutti noi ce ne andiamo domani. Alle sette prenderemo il treno per Genova; da là prenderemo una nave. Però non voglio che tu venga in stazione non voglio una persona in più a cui dire addio.- Il ragazzo la guardò con aria un po’ triste e un po’ arrabbiata. Si alzò in piedi, diede uno sguardo veloce al cielo e borbottando se ne andò a passo veloce. La ragazza, si accorse di avergli spezzato il cuore, così corse da lui reggendo le forbici -Voglio che le tenga tu queste, non vale la pena che tu le dia a una persona come me- . Lui si fermò e si voltò verso di lei, le prese una mano e le disse -Invece quelle forbici te le meriti eccome, sei la persona a cui tengo di più, l’unica che è riuscita a rubarmi il cuore. Ora voglio che tu abbia qualcosa per ricordarti di me, perché io non avrò bisogno di ricordarmi di te, perché non sono io quello che se ne va. Io potrò sempre guardare quella panchina e ricordarmi di te, mentre tu, invece, non avrai niente per ricordarti di me.- Le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio; -So che tu non vuoi che io venga alla stazione e sai benissimo che quindi non lo farò. E sai anche che questo è un addio. Mi mancherai tanto.- sussurrò e se ne andò via verso l’oscurità.
Una lacrima scese sul volto di Adele, le corse sulla guancia e cadde sulla lama della forbice. La sfiorò ancora con le dita, guardò il suo riflesso contorto sull’impugnatura. Gli occhi erano sempre gli stessi, ma eccetto quello non c’era più niente del suo passato. Niente fuorché quelle forbici, forbici magiche che non la abbandonarono mai, forbici che, come aveva detto Fabrizio, le sarebbero servite a ricordare.