Primo classificato Federica Belviso
Liceo Scientifico Silvestri – Napoli – 3^ E
“ACCORGITI DI ME”
Non vedevo padre Enzo da un po’, 11 anni precisamente. L’ho scorto dall’entrata dirigersi indaffarato verso la sagrestia, dato l’arrivo imminente dei bambini del catechismo. Mi è sembrato immune al castigo del tempo: gli stessi occhietti ridenti e le stesse mani esangui e filiformi con cui mi abbottonava sempre il colletto della camicia. Ripercorro la navata centrale insieme a “me” bambino col colletto fuori posto ed il libro del catechismo tra le mani -e la camicia a posto stavolta-. Sento la porta chiudersi alle mie spalle e mi rendo conto di essere rimasto solo nella piccola chiesa. Mi fermo davanti alla statua della Madonna inserita in una delle nicchie dell’altare. Ricordo che ogni domenica accendevo una candela ed esprimevo sempre lo stesso desiderio. Ne accendo una anche adesso, ma non ricordo più cosa desiderassi tanto ardentemente e finisco per non desiderare nulla. Il volto della statua riflette i bagliori delle candele, che le si rispecchiano negli occhi e ne fanno scintillare le iridi lacrimevoli. Queste Madonne con gli occhi rivolti sempre al cielo e mai alla terra. Forse è più comodo non guardare perché il mondo che ci hai lasciato tra le mani si accartoccia su sé stesso. Negli anni sono stato chiamato “errore”, fino quasi a convincermi di esserlo; il confine è davvero labile. E pian piano non è la mia fiducia in te ad essere svanita, ma ad ogni risatina, ad ogni dito puntato, ad ogni bisbiglio urlato, è stata la fiducia nell’uomo che è andata sgretolandosi. Paradossale. Mi fido più di una divinità, di un concetto che non ho mai visto concretizzarsi, che degli uomini con cui condivido questo angolo di vita: sono stati proprio loro a pugnalarmi. Ho fatto parte della parrocchia per diverso tempo, eravamo negli anni sorridenti in cui non c’è spazio per luoghi comuni e mi sentivo parte integrante di un gruppo. Non avrei mai pensato che proprio ciò che mi aveva reso felice mi avrebbe fatto sentire così inadeguato.
Tutto questo silenzio mi nausea e decido di sedermi sulla panca dietro di me, che accoglie il mio peso scricchiolando. È proprio qui che ero seduto il giorno della prima comunione, accanto ad Alessandro, il bambino dagli occhi vispi e dalla pelle ambrata. Questo nome scatena in me un turbine di pensieri, e mentre cerco affannosamente di acquietarlo si srotola davanti ai miei occhi come una pellicola la nostra amicizia. Quando avevamo sette anni mi citofonava tutte le domeniche alle tre del pomeriggio per andare a giocare a pallone in cortile o tra gli angusti vicoli, incorniciati da corde di vestiti e lenzuola svolazzanti. Ero l’unico bambino che non sapeva giocare a calcio, ma a lui non sembrava importare. A tredici anni eravamo compagni di banco, venivamo sempre ripresi perché chiacchieravamo troppo. Condividevamo tutto, e cominciai a vederlo come più di un amico. Non sapevo di preciso incontro a quale sentimento stessi andando, ma ero deciso ad esternarglielo, qualunque esso fosse. Poi però lo vidi accanto al distributore di merendine con una ragazza della terza C. Ridevano. Io quella sera piansi. Non dissi più nulla ad Alessandro, cominciai a nascondere il vero me stesso alla società, dandole in pasto solo ciò che voleva vedere. Servì a poco, fu un tentativo maldestro di rimettere le cose al posto giusto ma nessuno ha il diritto di decidere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, forse neanche tu. Stavo soffocando una parte di me nell’utopia della normalità e l’avrei capito solo anni dopo.
Un brusio di voci squillanti si fa sempre più vicino e in un attimo la navata è invasa da uno sciame di bambini e bambine. Fanno frettolosamente il segno della croce davanti alla statua della Madonna con la noncuranza dell’abitudine e corrono verso l’uscita, dove li aspettano i genitori. Che bella la vostra età: libera dal pregiudizio, dalle risatine di scherno, dagli sguardi affilati. Vi auguro di trovare il modo di essere voi un giorno. Le lancette del mio orologio da polso sono scivolate di poco più in avanti e i bambini saranno già in cammino verso casa, ad eccezione di una testolina rossa. Siede all’ultima fila col capo chino e riesco solo a vedere un groviglio di capelli ricci sotto cui ci devono essere due guance tempestate di lentiggini. Padre Enzo esce dalla porticina di legno della sagrestia e per un attimo il suo sguardo incrocia il mio. Mi fissa qualche secondo più del dovuto, come se cercasse negli angoli più reconditi della sua mente il nome da associare al mio volto, ma evidentemente non lo trova. Abbasso lo sguardo mosso da un senso di vergogna ed inadeguatezza, lui va a sedersi accanto al bambino triste… Luca, mi sembra di sentire sia il suo nome, e gli passa una mano ossuta tra la chioma scompigliandola amorevolmente. Si sono dimenticati di venirlo a prendere. Triste vedere che alcuni desiderano un figlio al solo scopo di tenerlo come accessorio, come una nuova auto da mostrare all’intero vicinato. Mi assale con veemenza la consapevolezza che non potrò mai essere padre, eppure non dimenticherei mai mio figlio al catechismo come si dimenticano gli occhiali da vista sul comodino.
Padre Enzo cerca di ingannare il tempo sistemando nuovi fiori nei vecchi vasi insieme a Luca. Gli porge un vaso blu, e il bambino scompare dietro la porticina consunta per riempirlo d’acqua. Intanto padre Enzo recide in obliquo i rami delle candide calle con un coltello, la stessa maestria di un fioraio, per far sì che i fiori assorbano più ossigeno dall’acqua. Ossigeno: proprio quello che comincia a mancarmi. La sensazione di nausea non accenna a svanire e l’unico rumore che accompagna il ronzio che si impone prepotente nei miei timpani è il ritmico zac zac zac del coltello del prete che è ad una spanna da me. La lama scintillante lambisce alla perfezione i gambi spessi e li fende fino a spezzarli in due. Padre Enzo sembra così calmo mentre impugna deciso il manico giallo. Allora solo io ho caldo, la fronte madida di sudore ed i palmi delle mani scivolosi. I passi di Luca rimbombano nella piccola architettura, i suoi genitori sono arrivati. Questi infila le calle nel collo sottile del vaso blu e si avvia verso i due signori all’entrata, poggiando il coltello sulla prima panca che incontra: la mia. Pochi secondi dopo non è rimasto più nessuno nella navata, è un cliché al quale dovrei essere abituato: non è rimasto più nessuno nella mia vita. Alessandro, troppo impegnato a guardare la ragazza di terza C per accorgersi di me che lo osservavo da lontano. I miei genitori, che quando hanno saputo di aspettare un maschio hanno dovuto gettare via scarpette rosa e vestitini a balze, ed io che non sono mai stato in grado di reggere il confronto con quello che avrei dovuto essere. È difficile andare avanti con il peso delle aspettative che grava sulle spalle. La società, a partire dalla chiesa in cui sono cresciuto, che mi ha rigettato come si cestina una bozza malriuscita.
Mi gira la testa. Rivolgo lo sguardo a destra e trovo la statua della Madonna. Ha occhi solo per suo figlio. Guardo davanti a me e vedo le calle immacolate. Sarebbe un peccato contaminarle con il mio animo sporco. Non riesco a fermare questa sensazione di confusione. Mi giro a sinistra: il coltello. Scintilla alla luce fioca delle candele, come il mio volto riflesso nella lama. Faccio scorrere i polpastrelli sul metallo freddo, perfettamente affilato, ed impugno la plastica gialla. La mia vista si oscura per la fiamma delle candele, il mio giudizio si offusca. Per la fiamma o per il sangue che mi ribolle nelle vene? Se penso a tutte le illusioni, le speranze malnutrite di trovare un amore ricambiato, un amore riconosciuto, a tutte le risatine sotto i baffi e a tutte le discriminazioni di cui sono stato oggetto… rivoli di sangue bollente sgorgano dal mio polso destro. La lama ghiacciata lacera il tendine e apre in due le vene, ma non fa male. È un sollievo. La visuale della pozza di sangue ai miei piedi è coperta dalla danza dei mille puntini blu che si affollano sulla cornea. Un’ultima goccia cade sul pavimento marmoreo, ed io con lei. Complimenti, hai vinto tu, la vostra morale ha cestinato lo scarabocchio sgraziato.
Il tonfo richiama l’attenzione di padre Enzo, che sento inginocchiarsi accanto a me preoccupato. Chiama un’ambulanza, la voce sempre più distante. Per farmi respirare si occupa per l’ultima volta del mio colletto, questa volta sbottonandolo. Prima di perdere del tutto i sensi lo sento in lontananza chiamarmi per nome. Mi aveva riconosciuto.