di Silvia Pickering
Liceo Classico Statale M. Gioia – Piacenza
Takumi Sasaki si svegliò di soprassalto, si guardò intorno e si rese conto che quello che stava vivendo non era un incubo, ma la realtà, peggiore di un incubo.
Si trovava davvero in una cella della stazione di polizia di Poggiovento, solo, lontano dal suo amato Giappone, sospettato di omicidio, senza uno straccio di avvocato che lo potesse difendere da quella ignominiosa accusa. Aveva ricordi confusi degli ultimi giorni e non riusciva a ricostruire gli eventi che avevano preceduto il suo arresto.
Mentre si sciacquava il viso, sentì il rumore della porta metallica che si apriva, ma invece di vedere la faccia imbronciata dell’inserviente che gli portava la colazione, vide entrare l’ispettore Ganetti, vestito con un impermeabile stropicciato e una camicia stirata male. Ganetti era un fumatore e l’olfatto di Takumì, finissimo e allenato da anni a distinguere per professione gli odori e i sapori, percepiva chiaramente che l’ispettore aveva appena spento una sigaretta.
“Signor Sasaki, è libero di andare, per il momento; resti però a disposizione delle autorità”, disse Ganetti in modo brusco.
Takumi abbozzò un impercettibile sorriso, mostrandosi sorpreso: “Davvero?” chiese.
“Certo, se vuole può tornare al lavoro nel suo ristorante. La faccio accompagnare da una pattuglia” rispose Ganetti.
Takumi salì sull’auto che lo avrebbe portato al monolocale dove abitava, sopra il ristorante giapponese che aveva aperto due anni prima, quando, quasi per scommessa, aveva lasciato il Giappone per “vedere il mondo”. E così per caso si era ritrovato a Poggiovento e, notando che nella piccola città c’era un solo ristorante giapponese aperto, una filiale della grande catena multinazionale Sakura, aveva deciso di aprire un piccolo sushi-bar, dove preparava artigianalmente preparazioni freschissime con la sua abilità di chef.
Mentre l’auto percorreva pigramente le strade della piccola città, Takumi ripercorse nella mente gli eventi delle ultime giornate.
Ricordava chiaramente quando l’incubo era cominciato, quella mattina in cui, mentre ancora dormiva, la polizia aveva fatto irruzione a casa sua e lo aveva arrestato con l’accusa di omicidio. Arma del delitto: un coltello per sushi Santoku, affilato con la lama alveolata, affondato nel petto del signor Giuliani, l’arrotino del paese.
Ricordava anche quando era andato dall’arrotino: il suo coltello aveva bisogno di essere affilato regolarmente, perché le sue delicate preparazioni dovevano essere tagliate con la precisione di un chirurgo. Il sushi in particolare doveva essere freschissimo, il pesce pescato il giorno stesso e tagliato con quella maestria che solo le scuole giapponesi di sushi potevano severamente impartire agli aspiranti chef.
Era andato dal signor Giuliani una mattina e lo aveva trovato nel suo laboratorio intento a sfogliare un catalogo di coltelli italiani di qualità eccezionale.
“Signor Sasaki, buongiorno! Se qualche volta, al posto del suo coltello da sushi volesse provare un coltello italiano, le raccomando uno di questi, sono formidabili e non hanno niente da invidiare ai suoi. L’acciaio è di primissima scelta e ogni coltello è rifinito a mano da esperti artigiani, una vera opera d’arte.”
“Grazie, signor Giuliani” rispose Takumi, “ma preferisco per il momento tenermi i miei coltelli, vorrei però che mi affilasse questo coltello da sushi in breve tempo”, aggiunse in uno stentato italiano, e gli lasciò il coltello, che sarebbe stato pronto due giorni dopo.
Takumi ritornò al ristorante e fece qualche telefonata ai fornitori che gli consegnavano il pesce tutti i giorni, per fare il suo consueto ordine di salmone, tonno, gamberi e pesce bianco. Controllò anche i libri contabili e si assicurò di aver pagato tutte le fatture entro la data di scadenza; la burocrazia italiana gli sembrava un mostro dai tentacoli ben più pericolosi di quelle piovre giganti che si pescano di tanto in tanto nell’Oceano Pacifico, capaci di fagocitare un peschereccio intero…
Era così intento a fare i suoi calcoli con nipponica precisione che non si accorse che dalla porta rimasta aperta erano entrati il signor Sagamochi e due suoi scagnozzi vestiti di nero. Il signor Sagamochi, gestore del ristorante Sakura, il concorrente di Takumi, con una sigaretta attaccata alle labbra, salutò Takumi in giapponese e gli disse bruscamente:
“È l’ultima volta che te lo dico con le buone Sasaki; devi deciderti a vendere questa topaia puzzolente. Poggiovento ha già un ristorante giapponese e non ha bisogno di altro.”
“Aspetti un momento signor Sagamochi. Che io chiuda o resti aperto non dipende da lei, ma da quanto sono soddisfatti i miei clienti del sushi che io preparo tutti i giorni, non come quelle schifezze surgelate che vengono servite nel suo ristorante” gli rispose Takumi (era uno timido, ma non per questo si lasciava metter i piedi in testa).
Sagamochi fece una smorfia che assomigliava ad un ghigno beffardo e aggiunse, con un tono minaccioso:
“Senti Sasaki, mi hai stufato: se non te ne vai in fretta i miei superiori se la prenderanno con me e mi licenzieranno, e allora saranno guai per te”, e se ne andò senza salutare. Non contenti delle minacce verbali, i due scagnozzi colpirono la vetrina del sushi-bar con una sbarra di ferro, mandandola in frantumi.
Takumi si spaventò e pensò che forse sarebbe stato meglio chiamare la polizia, ma poi ritenne che forse Sagamochi non sarebbe andato oltre le minacce, perché il suo scopo era quello di spaventarlo e ci era proprio riuscito…
Quella sera il ristorante rimase chiuso, il pesce ordinato venne preparato da Takumi e ceduto alla mensa dei poveri; anche il suo gatto, Hoshi, ebbe la sua parte e gradì quell’inaspettato banchetto, leccandosi accuratamente i baffi.
Il mattino dopo il nostro Takumi si svegliò di soprassalto. Era la polizia, ma questo lo abbiamo già raccontato. Una volta portato al commissariato, gli venne contestato il reato di omicidio: l’arrotino del paese, il signor Giuliani, era stato trovato morto e tutti gli indizi portavano a Takumi. Era stato lui infatti che gli aveva chiesto di affilare il suo coltello da sushi, l’arma del delitto, e questa era una prova inconfutabile: nessun altro in paese usava coltelli come questo, se non lo chef del ristorante Sakura che però aveva lavorato tutta la sera.
Takumi invece non aveva alibi e la sua auto era stata vista parcheggiata vicino al laboratorio dell’arrotino, a due passi dalla mensa dei poveri.
Un bel guaio! Come uscirne? Mentre scendeva dall’auto della polizia che lo riportava a casa, Takumi voleva chiedere al poliziotto come mai improvvisamente le accuse contro di lui erano cadute, ma non ne ebbe il coraggio, o forse non conosceva l’italiano abbastanza bene.
Respirò aria di libertà, entrò in casa, trovò il gatto affamato, gli diede qualche crocchetta e si concesse una lunga doccia calda. Si infilò un kimono pulito e telefonò alla stazione di polizia chiedendo dell’ispettore Ganetti. Gli dissero che sarebbe arrivato in serata e così Takumi decise di tener chiuso il sushi-bar per un paio di giorni e di parlare con l’ispettore di persona.
Così quel pomeriggio entrò nella stazione di polizia alle diciotto in punto e trovò Ganetti intento a stendere il rapporto sulle indagini sull’omicidio dell’arrotino. I due si salutarono e Takumi chiese all’ispettore:
“Come mai non sono più sospettato dell’omicidio?”
Ganetti gli rispose: “Vede signor Sasaki lei non aveva alcun movente per uccidere un povero arrotino e in più sull’arma del delitto non abbiamo ritrovato le sue impronte digitali. Ma la cosa che più ci ha convinto è che abbiamo notato, quando lei ha firmato la sua deposizione, che lei è mancino, mentre il coltello usato per il delitto è un coltello da destri. Infatti i coltelli giapponesi, come lei ben sa, sono spesso affilati in modo da essere taglienti solo su un lato, perché voi ritenete che una lama angolata solo da un lato tagli meglio e in modo più netto. Questo richiede più abilità nel suo uso rispetto ad una lama angolata su ambo i lati. Lei non avrebbe mai usato un coltello da destri per tagliare il suo sushi. Quindi, ci siamo convinti che non sia stato lei.”
“Ma allora, chi ha ucciso Giuliani?” chiese Takumi.
“Siamo convinti che sia stato qualcuno mandato da Sagamochi, il gestore del ristorante Sakura. Ha per caso lei ricevuto minacce da lui?”
“Sì, effettivamente” disse Takumi, “due giorni fa, Sagamochi mi ha minacciato e due suoi scagnozzi mi hanno rotto la vetrina…”
“Vede? Sagamochi fa parte di un’organizzazione criminale, a livello internazionale e voleva sbarazzarsi di lei, facendola incolpare di omicidio. Il ristorante è una copertura per il riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di armi. Lo abbiamo già arrestato.”
“Se le cose stanno così, allora devo ringraziarla per il suo acuto senso di osservazione e devo assolutamente sdebitarmi, offrendole un banchetto succulento a base di sushi” disse Takumi sollevato.
“Non si offenda, ma preferirei una pizza…” disse Ganetti.
E allora i due, venuta l’ora di cena, andarono insieme nella pizzeria in piazza e si mangiarono una gloriosa pizza italiana, tagliata con affilatissimi coltelli seghettati di acciaio italiano.