Silvia Pickering
Liceo Classico Statale M. Gioia – Piacenza
“Mi stai prendendo in giro?” le lacrime stavano iniziando a salirmi facendo diventare i miei occhi dei palloncini rossastri.
“No tesoro” rispose mia madre. Si appoggiò alla porta della camera mia, col volto sofferente che indossava un’espressione che non le avevo mai visto prima. I lineamenti della bocca invisibili, il naso lievemente alzato, le guance rosee diventate infuocate e il sopracciglio sinistro tremolante.
“Non così presto…” dissi nascondendo la faccia nel mio cuscino di seta blu. Una volta era… Una volta era della nonna. Della mia vecchia e dolce nonna Sarah.
“Ti prego Thomas, sapevi che sarebbe successo. Lo sapevamo entrambi” sussurrò avvicinandosi con passi cauti, come se essi avessero potuto calmare il rapido battito del mio cuore.
“A quando il…” chiesi singhiozzando. Mi sentivo un verme a piangere davanti a lei. Era sua madre, non la mia. Era lei che avrebbe dovuto piangere, non io. L’avrei fatta stare solo peggio.
“Questo pomeriggio. Siamo riusciti a trovare un posto libero con don Francesco” dichiarò abbozzando un sorriso.
“Va bene” conclusi inghiottendo della saliva più acida del solito e alzando la testa. Mi prese il volto fra le mani tremolanti e mi baciò la fronte lentamente. La morbidezza delle sue labbra a contatto con la mia fronte arsa dal vento che soffiava dalla finestra spalancata mi fece rabbrividire. Lei se ne accorse.
“Vieni a mangiare qualcosa, tesoro, finirai per star male altrimenti” disse alzandosi per chiudere la tapparella. Si tolse la larga felpa rosa intenso che indossava e me la mise sulle spalle, per porgermi infine la mano. Avevo bisogno di un appoggio, anche solo di una misera consolazione, così non la rifiutai.
***
Fu il pranzo più silenzioso a cui io abbia mai preso parte, ma probabilmente il più profondo.
Mamma e papà erano seduti di fronte a me e io mi sentivo solo senza la nonna al mio fianco. Stavamo mangiando la seconda portata quando entrò zio Sam con un piatto ricoperto da carta stagnola che subito appoggiò sul tavolo di mogano. Conteneva formaggio, più precisamente il profumato Montasio che nonna Sarah amava tanto.
Senza dire una parola aprì il cassetto più alto vicino alla credenza e afferrò un coltello. Aspetta, era il coltello…. Lo alzò a livello della spalla destra e lo strinse forte, quasi abbracciandolo.
“Ve lo ricordate?” sussurrò. Un sussurro che riecheggiò nel silenzio della sala da pranzo.
Come non ricordarlo? Quel coltello dalla lama affilata che nonna Sarah diceva di aver fatto affilare da suo padre in persona – un nobile uomo friulano, così sapevo – quando era giovane. Quel manico debole però, perché antico, era riuscito ad oltrepassare l’oceano, quando i nonni si erano trasferiti a New York, e ad intrappolare perfino l’essenza della nonna prima che se ne andasse per sempre.
Mi alzai e glielo strappai dalle mani, ma non per cattiveria.
“Non puoi tenerlo in mano” dissi con tono fermo. Presi il mio tovagliolo e ne avvolsi il manico. Timoroso mi sporsi verso il Montasio e ne tagliai una fetta. Iniziai premendo la punta della lama lievemente per poi affondarla completamente alzando la spalla destra, come faceva lei prima d’ogni pasto. Era diventato quasi un rituale.
Mi guardavano tutti, senza fiato, ma comprensivi. Porsi il coltello a mia madre e lei fece lo stesso, così come papà e zio Sam che me lo restituì, lo infilai nella tasca sinistra dei jeans senza nemmeno pulirlo e sollevai la formaggella.
“In memoria di nonna Sarah” dissi. Zio Sam mi seguì senza chiedere nulla e alzando la fetta di Montasio a sua volta.
“In memoria di nonna Sarah” ripeterono anche mamma e papà unendosi a noi. Era come se lei fosse ancora lì, per l’ultima volta.
Scesi dalla Range Rover nera di papà con la camicia scura stropicciata e i jeans leggermente macchiati dal caffè bevuto dopo pranzo.
“Sei pronto?” mi chiese mamma accarezzandomi la spalla.
“Credo che non lo sarò mai” risposi accennando un sorriso. Nonostante il mio cuore fosse caduto in un abisso, decisi di tirarle su il morale. Sorridere credetti che fosse una soluzione.
La funzione non durò troppo, quantomeno fino a quando non trasportarono la bara, due minuti che diventarono due secoli. Sapere che era lì, in quella cassa, senza vita, era diventato un dolore così grande che credetti quasi di non riuscire a reggermi in piedi. L’aria era terribilmente umida ed essa mi tolse ulteriormente le forze delle gambe già quasi crollate.
Arrivato il momento di andare a porgerle un ultimo omaggio, sentii zio Sam singhiozzare. Era strano, non lo avevo mai visto piangere. Mi misi in fila per andare a dare un ultimo saluto a nonna Sarah toccandomi la tasca sinistra dei jeans. Era lì, la nobile lama. Sapevo cosa dovevo fare.
“Condoglianze” mi disse un uomo sulla trentina porgendomi la mano e lasciando il tappetino scarlatto libero. Annuii col capo, non avevo la forza di fare altro, e mi avvicinai al letto di morte. Ed eccola lì, pallida ma sempre lei, con il volto contratto in una smorfia di dolore e gli occhi fragili chiusi. Le rughe sulla sua fronte erano ormai libere di assumere qualsiasi posizione e perfino il suo naso sembrava lo stesso di sempre. La morte aveva almeno avuto la decenza di farla rimanere se stessa.
Presi il coltello dalla tasca e lo strinsi al petto nella parte sopra il cuore.
“Nonna, ci sei stata quando sono nato, quando sono cresciuto e ogni volta che ho avuto bisogno di te. Credo che ciò che è successo sia…” ansimai.
“Sono stato egoista, ti ho voluto per me, e questo è il momento in cui qualcun altro ha più bisogno di te. Ti vuole con sé.” Appoggiai il coltello sul suo petto, le aprii le gelide mani e glielo strinsi fra esse.
“Non importa dove sarai, io ti ricorderò per sempre” sussurrai.
“Nonna”.