di Giorgia Verdini
Istituto Comprensivo Divisione Julia – Trieste
Pare impossibile, ma in tutto Leblon, non c’era stato verso di scovare un normalissimo coltello da formaggio, di quelli con il manico in legno invecchiato e la lama curva, perfetta come lo scorcio d’argento di Ipanema. Eppure avevo setacciato sia i centri commerciali sia i piccoli market, nascosti dietro le pieghe delle vie trasversali al centro.
Con la mia Reflex allacciata al collo, mi apprestavo a inerpicarmi per una via in salita, al termine della quale contavo di esplorare l’ ultimo grappolo di negozi e, magari, di immortalare l’anima vera di Rio de Janeiro. Finalmente, con un leggero affanno, raggiungo la sommità di un pendio e intravedo un gruppo di edifici svettanti contro il cielo turchino.
Ci siamo, penso. Vuoi vedere che laggiù finisce finalmente la caccia al tesoro e riesco ad acquistare non un coltello, ma un intero set di posate per la degustazione dei formaggi? Dal tagliagrana alle lame per specialità dure e tenere … Un piccolo ceppo con coltelli di varie dimensioni e forme avrebbe risolto il grande problema del buffet. La redazione mi aveva procurato un bel pezzo di Camambert, l’immancabile Gruyère, mezza forma di Parmigiano e altre prelibatezze tutte europee per il rinfresco: la mostra fotografica avrebbe attirato la crema della città, pertanto il servizio doveva essere all’altezza. Altro che riso e spiedini arrostiti … Era ora di portare anche qui la raffinatezza delle mense europee.
Arranco a fatica sotto i raggi infuocati del sole di mezzogiorno. Pensare ai formaggi mi impasta la bocca riarsa. Scatto qualche istantanea al paesaggio: i grattacieli lanciano le loro ombre superbe sui fianchi delle colline, ricoperti di costruzioni asimmetriche. Sono gli squilibri di Rio, penso. Per qualche istante seguo docile il flusso dei pensieri, rapidi e lievi come nuvole passeggere, poi, d’un tratto, si riaffaccia alla mente la mia missione: le foto, i coltelli e soprattutto un po’ d’acqua per togliermi quella sete assurda.
Un’insegna scrostata mi pare un miraggio. Dietro l’angolo si profila una costruzione che ha l’aria di un emporio un po’ datato. E dietro al grande supermercato, d’improvviso, tra cassonetti pieni di cibo intatto, ancora ben confezionato con il cellophane, ma abbandonato come inutile immondizia, scorgo da lontano una figura secca ed esile, accartocciata come una foglia d’autunno, con in braccio un bambino. Uso il teleobiettivo per mettere a fuoco il volto di quella strana creatura. È quasi impossibile identificarne i tratti, tanto sono scavate le guance e le orbite. Mi raggiunge fiacca come l’alito di brezza in un deserto.
Prima che possa proferire parola, sono catapultata in un’altra dimensione. Dimentico di aver sete.
Quando la misteriosa creatura è più prossima, mi accorgo che impugna una falce … Cercavo dei coltelli per servire formaggi e mi ritrovo una lama ricurva piantata nel fianco.
Avevo sentito parlare spesso di Lei. Ne avevo parlato io stessa molte volte nei reportage delle zone di guerra nel mondo. L’avevo raccontata, deprecata, ne avevo descritto gli effetti, ma di fatto non l’ avevo mai conosciuta. Eppure ero capace di riconoscerla.
È alta, trasparente, sembra un filo; il bimbo è ormai macilento, grigio, con le braccine abbandonate intorno al piccolo corpo. Lo porta addosso come un trofeo … Sì, ha vinto ancora Lei! Vince sempre Lei, da troppo tempo ormai.
Mi accorgo che ai suoi piedi ci sono molti altri corpi, grandi, piccoli, che erano e che non sono più. Sono freddi, muti, le bocche aperte sembrano urlare, le orbite vuote non riescono più a vedere. Sono tanti, uno sopra l’altro, magri, ormai non più bambini, non più uomini.
A un tratto Lei mi guarda torva, poi sibila con un filo di voce tagliente: “Cosa vuoi? Che ci fai qui? Mi stai controllando? Chi sei? Come osi disturbare la mia opera?”
Mi allontano perché ho paura … Sì, sono terrorizzata come mai in vita mia. Ho paura di quell’essere che mi sovrasta, ho paura che si attacchi a me, che non mi lasci più, che invada il mio spazio. Non riesco a parlare, riesco solo a emettere suoni senza senso … Lei insiste fissandomi e intanto lancia in mezzo agli altri corpi quello del bimbo, come fosse un sacco vuoto, inutile.
A quel gesto infame la mia indignazione vince tutti i timori. Le vomito contro, con il fiato che mi rimane in corpo, il mio disprezzo: “Vergognati, sei spregevole, vile … Fermati! Per secoli hai distrutto la vita degli uomini. Fame! Hai tante facce: carestia, privazione, rapina, debito, denutrizione, malattia … Per colpa tua anche oggi, qui e altrove, in molte parti del mondo, milioni di persone soffrono, muoiono, uccidono, vendono i propri figli, riescono a compiere le peggiori azioni! Tu sai mettere in ginocchio interi Paesi, dissanguandone le risorse. Ma non dubitare, prima o poi pagherai i tuoi conti …”
“Io” scandisce con astio “sono la sorella della povertà e la madre della malattia. Ci sono da sempre e sempre ci sarò; tempeste e calamità sono i miei servi, guerre e sprechi i miei alleati! A Nord si consuma, a Sud ci si consuma. Finché l’uomo penserà solo ai suoi interessi, a essere più ricco, a rubare al suo vicino, io sarò sempre più forte.” E, sfoderando un ghigno beffardo, continua: “È da quando vi conosco che vi combattete, che vi dilaniate; vi ho visto usare selce, pietre, bastoni e poi avete migliorato le vostre armi rendendole più sofisticate e pericolose. Avete creato frecce, lance, spade e pugnali, avete continuato a preferire le armi per risolvere i problemi, perfezionando pistole e fucili, cannoni e carri armati, fino a inventare missili e bombe sempre più potenti. Ah, non sarei qui, se aveste usato le vostre risorse diversamente, per migliorare la vita di tutti! Siete voi, poveri umani, ad armare le mie mani, a rendermi sempre più forte, invincibile.
E poi tu pensi di essere migliore di me? Che diritto hai tu di giudicarmi, figlia di una società matrigna, insulsa fotografa a caccia di immagini che ritraggono una realtà finta?
Tu, come tanti tuoi compagni umani, che vivono nel lusso, non ti accorgi di chi viene torturato e poi falciato dalla violenza della mia ira. Che cosa ci fai qui, erede del cosiddetto Progresso?
Cerchi un coltello speciale? Eccoti molto di più: tieni la falce della Fame! Che ci farai con questa lama?”
Spicco un balzo per ritrarmi.
Raccolgo rapidamente i pensieri per riflettere: “Come si fa a sopportare questo? Lei ha ragione, ci autoconserviamo senza pensare agli altri. L’uomo sa essere molto egoista e il progresso è un treno che dimentica nelle stazioni tanti, troppi passeggeri, validi compagni di viaggio …”
Replico, ma la voce quasi mi si strozza in gola: “Ma perché ti diverti tanto a far soffrire le persone? È così che passi il tempo, uccidendo creature innocenti, manipolando quei disperati che ammazzano, spacciano per guadagnarsi un pezzo di pane? Qual è il tuo compito? Stroncare vite umane? Perché tutto questo?”
Lei mi guarda in un modo che mi fa sentire colpevole …
Il mio respiro mi tradisce, è pesante, le mani sono sudate e tremolanti, gli occhi piantati a terra …
Lei mi sta ancora offrendo la sua falce. lo la guardo e mi viene voglia di afferrarla.
Allungo il braccio tremante e finalmente la impugno. Per un attimo mi sento invincibile. Poi, d’improvviso, nella lama ricurva vedo riflessi i profili della collina, con le capanne aggrappate pietosamente al suo dorso, e la mente si rischiara.
Immagino i campi dorati, i frutti…
La falce non è un’arma, è lo strumento del raccolto e salva tante vite. Scaravento il falcetto per terra, come aveva fatto la sua proprietaria con il bimbo.
“NO!” All’urlo fa eco un lamento assordante.
La vedo dissolversi con la sua falce spezzata …
Ho vinto io.
Mi ritrovo sul ciglio di una strada.
La Reflex mi accompagna come sempre.
Avverto una vibrazione nella tasca posteriore dei miei jeans, ho un sussulto. Niente paura, è il cellulare, è Michelle. Le rispondo: “Sì? Ah, ciao, i coltelli, no … Niente da fare. Non li ho trovati … Come dici? Hai ordinato un ceppo? Michelle, ascolta. Annulla tutto, non ci servirà. … Ti prego, fa’ quello che ti dico, poi ti spiego. Basta un brindisi … L’importante è la raccolta fondi, non trovi? Ok, a dopo.” Il profilo della collina è quasi addormentato.
Ora ho solo voglia di tornare a casa.